Soltanto un mese prima ne sono successe di ogni. I Ramones hanno annunciato che si scioglieranno e il commiato avverrà con un concerto a Los Angeles. Per non restare indietro, la Nasa ha estratto dal cilindro una notiziuccia fragorosa: in pratica il meteorite ALH84001, precipitante da Marte, potrebbe contenere tracce di vita aliena. Replicano dalla vecchia Europa: Diana Spencer e Carlo, Principe del Galles, annunciano il divorzio ufficiale. Se sembra tanta roba, è solo perché non sei in tribuna a San Siro l’8 settembre 1996.
Prima di campionato. Il Milan orfano di Fabio Capello dopo un lustro galattico. In panca svetta il gentiluomo Oscar Tabarez: come diluire il Sassicaia con l’acqua di rubinetto. Lo spogliatoio è una cricca di primi violini, lui approccia morbido e quelli se lo divorano. Il 2 dicembre riceverà una lettera di benservito che inaugurerà il Sacchi bis, ma sarà una minestra riscaldata impossibile da deglutire: Diavolo penosamente undicesimo quando la Serie A abbassa il bandone.
Quel giorno però i rossoneri partono con una prestazione prodigiosa. C’è il neo promosso Verona di Gigino Cagni davanti, ma si sbriciola in fretta. Ospiti fortuitamente in vantaggio, poi sotterrati da una performance dilagante del Milan: alla fine il tabellone luminoso pompa un inequivocabile 4-1. Ma c’è qualcosa di ancora più iridescente che irrora questo altrimenti dimenticabile pomeriggio settembrino. Tra la doppietta di Simone e il gol di Baggio si infila l’acuto prolungato di George Weah. Quando avrà finito, San Siro vibrerà a tal punto da necessitare di un condono edilizio.
Minuto ottantasette. Calcio d’angolo sciagurato del Verona. Traiettoria talmente ampia da sorvolare il crocchio di teste in area. Aggancia al volo Weah. Mette giù, alza la testa e sceglie la soluzione più congeniale al suo corredo genetico felino: parte dritto in progressione. Fateci caso: lo strappo è talmente prepotente che solo con quello sibila in mezzo a due giocatori del Verona. Viaggia talmente più veloce che non tentano nemmeno di contendergli la sfera. Non può essere però una discesa libera.
All’altezza del cerchio di centrocampo incontra un nugolo di avversari. Gli saltano addosso in tre: Vanoli, Colucci e Caverzan. Per un istante sembrano quasi in grado di strappargli il pallone, ma George riaffiora vittorioso dal duello impari, con una veronica ed un mezzo rimpallo. C’è un accenno di fallo, ma l’arbitro applica il vantaggio. Adesso davanti c’è solo Corini: tessitore quando la palla ce l’ha lui tra i piedi, plantigradico se si tratta di sprintare e addentare. Il motore di Weah gira talmente più forte che lo gratta via dal campo. Portiere in uscita, ultima staccionata che si antepone alla zaffata di gloria. George sceglie di non saltarlo e lo trafigge con glaciale precisione.
Roba da scomodare il sigillo di Diego Armando Maradona a Messico ’86. El Pibe de oro giocava un Mondiale ed i suoi oppositori erano tenaci argentini. George però è partito direttamente da casa con la palla sfrigolante tra gli scarpini, protuberanza inafferrabile per la tramortita retroguardia scaligera.
Imparagonabili, sicuro, ma l'assolo del liberiano è un estratto di forza, classe e precisione che si candida, almeno, ad essere cugino di secondo grado.Resterà uno zaffiro lucente, estratto dal mucchio di disgrazie sportive di una stagione infima. Rock, reale e alieno: tutto nel tempo di dieci secondi.
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