L’immagine è sempre più sfumata, sgretolata dal cinismo del tempo che scorre. Però non si è dissolta interamente. Anche oggi, a sessant’anni di distanza, riesce a indovinare i tratti di quella maschera dalle guance bianche e rosse e un pomello rosso in punta di naso. Rendeva le sue giornate più tenere un autentico spasso. In Brasile lo chiamavano “Moleza”: era il pagliaccio più famoso dell’intero Stato. Ed era soprattutto suo padre. Toninho Cerezo lo avrebbe perso per sempre quando aveva soltanto sette anni, decisamente troppo presto. Nota non a margine: pure la mamma gravitava assiduamente nel circuito circense.
La prematura dipartita di Moleza la costringe a lavorare e a spostarsi ancora di più. Così il piccolo Antonio Carlos – Toninho, per tutti – cresce tra le quattro mura di un orfanotrofio a San Antonio, Belo Horizonte. È un gancio alla bocca dello stomaco, ma quella felicità svanita d’un tratto lui la ripesca nel cortile della struttura, dietro ad un pallone che rotola. Quel corredo genetico circense pettina l’intuito calcistico, facendolo sbocciare in fretta.
I primi mestieranti del pallone che se ne avvedono lo trascinano nella zona di Lourdes, quella dove si allena l’Atletico Mineiro. Toninho sfoggia già un repertorio ruggente: alto e dinoccolato, procede con movenze che parrebbero compassate perché infatti lo sono, ma non perde mai il controllo. Sa presidiare ogni zona del centrocampo ed è pure un incursore formidabile. Però il campo dista troppo da Belo Horizonte e la saudade è un concetto che viaggia anche per linee interne. Prima getta la spugna, poi ci ripensa, convinto da chi ne sa più di lui che quel talento non merita uno scempio. Non può essere dilapidato. Si avvita da qui una storia di successo che lo issa ai vertici della contesa brasiliana: Telé Santana scommette su di lui, senza più tornare indietro.
Le sue inafferrabili cadenze non sfuggono nemmeno oltreoceano. Così, dopo il mondiale dell’82 (a quello del '78 era arrivato terzo), il telefono trilla fino a sobbollire. Niels Liedholm ha appena perso Herbert Prohaska e deve rimpolpare il centrocampo con presenza e cervello. L’endorsement arriva direttamente da un altro mostro sacro giallorosso, Paulo Roberto Falcao, che ha avuto modo di apprezzarne le doti in nazionale. La trattativa pare un garbuglio inestricabile. Quando finalmente Dino Viola trova l’intesa con l’Atletico, la Federcalcio infila un bastone tra i raggi: stop al tesseramento di nuovi stranieri. Roma trasecolata, come anche l’Udinese, che stava per mettersi in casa un certo Zico. Solo l’intervento di Sandro Pertini sbloccherà l’impasse: “Cerezo e Zico? Mi piacerebbe vederli in Italia”.
Le esperienze con Roma e Sampdoria
Così eccolo, per una cifra che lambisce i 6 miliardi della vecchie lire. Va a comporre un centrocampo sinceramente illegale, se si considera che oltre a lui e Falcao giostrano in quelle zolle Di Bartolomei, Ancelotti e Bruno Conti. Roba da alzare le mani e andarsene. Anche nella capitale non smarrisce quei tratti identitari. Il suo è un samba lento, ma corrosivo. A chi lo accusa di muoversi alla moviola risponde fuori dai denti: “Sono uno tutto cervello, mica devo correre come gli altri”. Alla prima stagione si piazza subito secondo, ricama e si diletta in prolifiche incursioni. Ha lo sguardo allegro di chi si diverte, infatti sotto quei baffi folti stampa spesso un sorriso: “Il calcio è felicità, gioia di vivere. Il calcio è riso con i fagioli”. Con la Roma ride forte anche quando solleva contro il cielo una coppa Italia. Se la spassa un po’ meno quando è costretto a uscire per crampi nella finale di coppa dei Campioni contro il Liverpool ed assiste ad un’indigesta sconfitta ai rigori.
Quando in panchina si appollaia Sven Goran Eriksson, uno che lo maneggia quasi fosse materiale incandescente, il suo impiego comincia a distillarsi. Però quando entra risulta sempre decisivo: la gente di Roma lo idolatra, adora i suoi ricci intricati, i baffi improbabili, quell’atteggiamento che pare indolente e poi invece, a conti fatti, è un consommé di classe e tenacia. Tratti genetici che lo aiutano a vincere un’altra coppa Italia.
Quando scoccano i suoi trentuno anni la storia si impiglia: il club non gli rinnova il contratto e Toninho è costretto a cercarsi un’altra squadra. Avrebbe un principio di accordo con il Milan, ma poi i rossoneri preferiscono allungare lo sguardo altrove. Avvilito, riceve d’un tratto un invito a casa dal presidente della Sampdoria, Paolo Mantovani. Ci va e trova l’intera famiglia schierata ad accoglierlo. È un gesto che lo prende in contropiede, ma comunque il Doria offre solo 800 milioni di stipendio, contro il miliardo e mezzo che gli garantiva il Milan. Allora si alza dalla pelle comoda di quella poltrona piazzata in salotto, persuaso a declinare. Poi torna indietro, dicendo che deve appartarsi in un’altra stanza per sentire il parere di sua moglie Rosa.
Passa una caterva di interminabili istanti. I convitati nel salottino scrutano le reciproche pupille. Poi Toninho riemerge e abbraccia Mantovani: “Presidente, mio presidente”. Quelli si interrogano su quel chiassoso ripensamento. “Se non firmo, Rosa divorzia”, spiega Cerezo. Risate collettive, contratto siglato. Nel viaggio di ritorno il suo agente, Dario Canovi, si complimenta per la trovata. Toninho prima sembra assorto e fissa la strada, poi si volta di scatto verso di lui: “Guarda che io Rosa non l’ho mai sentita”.
A Genova dovrebbe incanalarsi verso la parte discendente della sua carriera, invece fa spallucce. Continua a incollare difesa e attacco con sorprendente disinvoltura, confermando quel soprannome “Tiramolla”, che ne identifica al meglio la missione calcistica di trapezista del centrocampo, sempre in equilibrio perfetto tra i due reparti. Lo aiuta un collettivo invidiabile: Boskov in panca, Vialli e Mancini davanti, lo zar Pietro Vierchowod e Pagliuca a murare la difesa. Diventa in fretta un totem che arraffa trofei in serie: altre due coppe Italia, una coppa delle coppe, una supercoppa italiana e, sopra ogni cosa, lo scudetto.
Al campo porta sempre i suoi cani. Boskov arriccia il naso, ma poi alla fine ci gioca, perché in fondo sono i cani di quel gran genio di Cerezo e allora va bene, anche perché gli ha detto che tolgono il malocchio.
Con il Doria trangugia anche un calice amaro: un’altra sconfitta in finale di coppa dei Campioni, stavolta per mano del Barcellona. Torna in patria con un peso invidiabile di trofei e amore guadagnato premuti in valigia. Forse la faccia di Moleza se la ricorda sbiadita. Il suo tragitto italiano è invece nitidissimo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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