Poche storie d'amore sono state così votate alla catastrofe come quella che ebbe per protagonisti Romain Gary e Jean Seberg. A complicare il quadro c'era anzitutto l'età, venti e passa anni di differenza, 45 lui, 21 lei, e poi quelli che si potevano definire i rispettivi vissuti: nato a Vilnius, vissuto in Polonia, naturalizzato francese il primo, una provinciale ragazzina di Marshelltown, nello Jowa la seconda; un passato sofferto quanto avventuroso Romain, eroe di guerra, diplomatico, scrittore, nessun passato se non l'attimo fuggente di un presente Jean, troppo pesante rispetto alle sue fragili spalle. Se si scava più a fondo, la Seberg, ventunenne, cinematograficamente non riuscirà mai ad andare oltre quell'età: a diciott'anni è stata la Giovanna d'Arco di un film di Otto Preminger, a venti la Cécile di Bonjour tristesse sempre per lo stesso regista e subito dopo ci ha pensato Jean-Luc Godard a renderla unica e irripetibile in À bout de souffle. Più che un'attrice, è un'età, il viso di chi, purtroppo per lei, può avere sempre e solo vent'anni.
Al tempo che passa e allo scontro con la vita, Romain Gary è invece abituato, ma come spesso accade ai figli unici cresciuti senza padre le donne che ha contato nella sua vita sono state figure materne, protettive e insieme autorevoli se non autoritarie, sempre tese a coltivarne le ambizioni, ma proprio per questo consapevoli dei limiti e di come superarli. Della madre, Mina Kacev, in La promessa dell'alba Gary lascerà un ritratto memorabile e non importa quanto vero, falso o verosimile esso fosse: era l'omaggio-tributo a chi dalla profondità di un'Europa centro-orientale instabile e pericolosa per chi come loro era ebreo, l'aveva portato al sole della Costa Azzurra e allo splendore di una nuova patria, la Francia che mai come allora incarnava l'idea stessa della cultura, nonché dello scrittore come figura pubblica. Era questo che la madre aveva voluto caparbiamente per suo figlio, sarà questo che il figlio, altrettanto caparbiamente, cercherà di essere in nome e in memoria della madre.
L'altra donna della sua vita si chiama Lesley Blanch. È più grande di dieci anni, è inglese di buona famiglia, veste bene, scrive meglio, ama viaggiare, è ironica e insieme appassionata, con un penchant per tutto ciò che è orientale, esotico, avventuroso. È lei che, come fosse di fronte a un diamante grezzo, ripulisce Gary, lo corregge e insieme lo esalta: nella vita come nella scrittura. Sposatisi nel 1945, resteranno insieme sino alla fine degli anni Cinquanta, quando all'orizzonte appare il sorriso incerto della Seberg, il sorriso di chi ha bisogno di essere protetta e insieme guidata, rassicurata e insieme amata.
L'età di Gary sembra offrire tutte le garanzie al riguardo, ma è solo apparenza. In realtà Gary è un mitomane, nel senso vero del termine, ma anche nel suo senso deteriore, troppo preso dal suo essere personaggio, meglio, più personaggi, per potersi dedicare a qualcuno e/o a qualcosa che non sia il proprio io. È un seduttore seriale, Gary, ma nella logica monotona degli scapoli che poi continuano a vivere in casa con la mamma o degli ammogliati che hanno una madre-moglie disposta a chiudere un occhio sulle scappatelle in quanto debolezze della carne e nulla di più. Per la prima volta, Gary si trova di fronte a qualcuno che dipende da lui, di cui si deve prendere cura, nella vita, oltretutto, e non sulle pagine di un romanzo dove la vita è come lui decide che sia. E questo è un compito superiore alle sue forze.
Ardore (Neri Pozza, pagg. 394, euro 20) è il romanzo-biografia che Anna Folli ha scritto introno alla storia d'amore di Romain Gary e Jean Seberg, un amore che naturalmente ha tutti gli elementi per essere romanticamente romanzato: la bellezza dei suoi protagonisti, gli eccessi alcolici e le trasgressioni, le depressioni e le case di cura, ma anche i parties, i set cinematografici, il milieu intellettuale e quello mondano, i viaggi, Africa, Asia, Sud America... Intelligentemente, nel raccontare Gary, la Folli non si sostituisce più di tanto allo scrittore: utilizza cioè le sue parole, ciò che scrisse nei suoi romanzi, che disse nelle interviste e nei discorsi ufficiali. Per la Seberg il discorso è più complicato: la sua è un'immagine inizialmente costruita dalle case di produzione e poi condizionata dalla causa afroamericana, i diritti civili, quelli politici. Causa tanto abbracciata per nobili motivi quanto per lei distruttiva: frequentazioni sbagliate, circonvenzione, campagne scandalistiche di stampa montate ad arte contro di lei. Nell'insieme però la Folli riesce a darne egualmente conto in modo credibile.
Nella Francia del secondo dopoguerra, Gary fu una figura anomala. Scrittore puro, raccontatore di storie, si trovò in controtendenza rispetto allo spirito del tempo che privilegiava l'impegno e metteva l'intellettuale un gradino sopra il romanziere. La sua parallela attività di diplomatico, in una Francia ancora impegnata nella difesa della sua grandeur coloniale, in Indocina come in Algeria, lo vedeva anche qui arroccato suo malgrado a fronte di un dibattito culturale dove era il terzomondismo a farla da padrone e il suo gollismo ideologico-militare gli precludeva qualsiasi gioco di sponda con quella destra più o meno «collaborazionista» che a propria volta veniva presa d'infilata dall'esistenzialismo e dal resistenzialismo di matrice più o meno scopertamente comunista.
A ciò si aggiunge il fatto che, troppo portato a inseguire i propri fantasmi e a esorcizzarli nel nome della riuscita letteraria, Gary era teoricamente impreparato a costruire intorno a sé un pensiero robusto e coerente. Non aveva la profondità e l'astuzia di un Malraux o di un Sartre, né il prestigio di un Mauriac, non poteva vantare un'eredità di polemiche e di prese di posizione di un Bernanos... L'incontro con la Seberg avvenne nel momento più alto della sua carriera di scrittore, fresco reduce dal Goncourt con Le radici del cielo. Tuttavia gli anni Sessanta li trascorse come uno scrittore dal successo di pubblico altalenante, ma a cui non corrispondeva un interesse della critica. Volente o nolente, per quest'ultima era un autore a fine corsa, superato, che non aveva più nulla da dire. E se si ostinava a voler dire ancora qualcosa, non era interessante...
È noto che Gary tornò a brillare e a convincere sia i lettori sia il milieu intellettuale parigino, e non solo, con quel La vita davanti a sé da lui scritto con un altro nome e un'altra identità. Il modo in cui Gary gestì questa vicenda assunse però aspetti tragici, quanto tragica era stata la passione per i negri d'America della Seberg, presa in trappola in un gioco più grande di lei, delle sue forze, di ciò che avrebbe voluto fare.
Il camaleontismo di Gary si rivoltò contro lo stesso Gary, sul modello di quella storia che amava raccontare, e che era poi la spia nascosta di un disagio del vivere, la storia, appunto, di un camaleonte che, collocato su un tappeto intrecciato di scacchi colorati, moriva per la sua impossibilità di trovare il colore che, rendendolo invisibile, lo avrebbe salvato...
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