La reazione dev’essere stata, giurerei, «belìn, ma ti t’è un ommo?», sei un uomo? Sibilata tra lo sgomento e il divertito, perché il Faber, nel senso di De André, era fatto così: sempre attento al retrogusto umoristico che si cela comunque in fondo alle cose della vita, anche le più drammatiche. Fu lui a raccontarmelo, quel buffo incontro: «Era bellissima, non esagero, due poppe di burro e insieme di marmo. E una faccia che assomigliava a Franca Rame. Solo che, quando venimmo al dunque, scoprii che non si trattava di Josephine, ma di Giuseppe. E da Casablanca non era mai passato».
Finì che Dario Fo, proprio in quei giorni, gli fece ascoltare una vecchia melodia del Quattrocento lombardo, rimaneggiata da Jannacci. E gli propose di scriverci un testo. Nacque così Via del campo, ché era quella la strada, un lungo budello nel fitto dei vicoli angiportuali, dove l'incontro era avvenuto, e là battevano, anche allora, le «graziose» dalla voce baritonale e le gote non sempre glabre, alla cui schiera apparteneva Giuseppe, detto Josephine.
Eravamo a metà degli anni Sessanta, e noi giovinetti della Genova bene ci si dilettava di trasgressioni a buon mercato: giusto per darci un contegno, in una città tra le più conformiste d'Italia, nei suoi piani alti, e invece tra le più riottose, nei quartieri bassi. Eravamo dei moralisti, dopo tutto, ma amavamo travestirci da corsari, e non per niente Fabrizio, che era il più corsaro di tutti, concluse il suo testo con la celebre massima: «Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior». Non è mica per caso che ora, su un muro di via del Campo, ci sia un bassorilievo con la faccia in marmo di Faber, dedicatogli dai commercianti della zona per aver reso celebre la «loro» strada. Solo che mancheranno loro, le «graziose/con le labbra color di foglia», e immagino che lui, dall'alto di quella sua effigie, si sentirà un po' più solo: come calato in una realtà che di colpo si fa estranea, remota, algida senza i Giuseppe ribattezzati Josephine.
Se ne andrà via, tra l'altro, un altro tratto della multiforme fisionomia della Genova che amammo, nella quale siamo nati, cresciuti e diventati faticosamente uomini. In ispecie di quella Genova povera e antica dove l'aria è «spessa, carica di sale, gonfia di odori», e pazienza se qui «il sole del buon Dio non dà i suoi raggi/ha già troppi impegni per scaldar la gente/d'altri paraggi», come aveva cantato ancora Fabrizio in un'altra delle sue pagine più caustiche e più tenere. Una Genova capace di tutto, tranne che di banalità: perfino di impiegati comunali che, quando andavano a battone, le pagavano con i buoni pasto forniti dal Comune, e le buone signore accettavano, e le autorità comunali, pur sapendo, non trovavano nulla da ridire.
Altri tempi, evidentemente. Ma intanto come la vivrebbe, il Faber, questa mutilazione inferta alla sua città, se fosse ancora tra noi? Lasciare via del Campo senza «graziose», borbotterebbe con quella sua ironia tagliente, che sapeva farsi amarissima, «è come fare il pesto senza basilico: belìn, te l'immagini?». Lui che nell'84, in «Creuza de mà», aveva cantato dal poeta che era questa Genova fatta anche d'angiporti e marginalità, di salino e, ma sì, di letame che ora vogliono rubarci. Per farne una succursale della città alta, quella perbenista e danarosa che il corsaro De André, essendoci nato, detestava.
Ecco lì. Però a me intenerisce un ricordo, tra i molti che, almeno quelli, non basta un decreto comunale a vietare. Era il 13 gennaio del '99, in una chiesa della Genova alta eravamo una folla, alle esequie di Fabrizio De André.
C'erano ministri, bandiere, star della musica. Ma ora mi commuove il ricordo di due «graziose», la barba che premeva sotto il fondotinta e la voce profonda, che piangevano a dirotto, in un angolo. Per forza, se n'era andato il loro poeta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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