In questi giorni è stato scritto molto su Massimo Canalini, morto recentemente, una delle figure più influenti e visionarie dell'editoria italiana contemporanea. Fondatore della casa editrice Transeuropa, Massimo ha rivoluzionato il mondo della narrativa e dato voce a scrittori come Enrico Brizzi, che con Jack Frusciante è uscito dal gruppo è diventato un classico della letteratura giovanile italiana, e Silvia Ballestra, autrice di opere memorabili come La guerra degli Antò.
Si è detto allora del suo genio, della sua pazzia, ma un ritratto del genere rischia di risultare stereotipato. Anche comodo, se vogliamo, mentre Canalini era un personaggio scomodo. Lo può testimoniare chi ha trascorso con lui, come ho fatto io, dieci anni della propria esistenza. Dal 1995, quando l'ho conosciuto insieme agli Under 25 della prima antologia del dopo Tondelli, al 2005, l'anno in cui ho preso le distanze dal mio maestro: girardianamente, potrei dire, come Maurizio Ferraris fece con Vattimo (ne parla il sociologo Paolo Di Motoli nel volume Vattimo e in suoi nemici. Conflitto e campo accademico in uscita a dicembre per Transeuropa).
Tuttavia, per molto tempo, il nostro rapporto era stato così profondo che qualcuno sospettava fossi vittima di un plagio emotivo. La verità è che Massimo non poteva arruolare né essere arruolato: troppo indipendente e complesso, troppo irregolare per gestire un potere. Ha sempre scelto la strada meno battuta, restando fedele a sé stesso e alle sue idee. Per esempio: invece di accettare la proposta di Giulio Einaudi e dirigere la sede romana della casa editrice torinese, che qualche anno dopo avrebbe capitalizzato proprio l'esperienza dell'Under 25 con l'antologia Gioventù cannibale, invece che allearsi col più forte, preferì entrare in società con un altro editore di ricerca «irripetibile», come si dice, in quanto destinato a soccombere: Beniamino Vignola della casa editrice Theoria.
Conflitto e campo accademico è proprio un bel sottotitolo. Nel caso di un libro che si chiamasse «Canalini e i suoi nemici», andrebbe parafrasato in «Conflitto e campo editoriale». Il «campo» è in tutti i casi quello reputazionale di cui parla Bourdieu. Scrive Bourdieu in Le regole dell'arte che la storia del campo è «la storia delle lotte per il monopolio dell'imposizione di categorie di percezione e di valutazione legittime». L'invecchiamento degli autori o delle scuole non è il risultato del tempo che passa, ma di uno scontro «tra coloro che lottano per eternizzare lo status quo» e i nuovi entranti, che hanno invece interesse alla discontinuità. Se non si comprende questo punto, non si capisce l'epilogo solitario di Canalini. Ha svolto nel campo dell'editoria letteraria la stessa silenziosa rivoluzione che Vattimo compì nella filosofia estetica: regalare alla ricerca altri dieci anni di vita, mentre la ricerca era già destinata a morire. Il successo della sua iniziativa ha segnato l'avvento dei suoi nemici.
Il principale difetto di Canalini era quello di appartenere alla cosiddetta cultura dell'iniziazione, che non ha un metodo, ma un codice. La cultura dell'iniziazione non fonda scuole, associazioni, ma templi, sette, organizzazioni sovversive. Non è democratica: è una gerarchia di adepti selettiva. Ne esci psichicamente malmesso, ma intellettualmente duro come l'acciaio. Perché Canalini considerava la scrittura, l'editoria, non un passatempo terapeutico, ma una mitizzata ragione di vita. A cui tutto andava sacrificato.
Aveva appreso questi saperi da Pier Vittorio Tondelli, che a propria volta era stato allievo di Aldo Tagliaferri, il direttore, con Nanni Balestrini, della collana «Franchi narratori» di Feltrinelli (36 titoli, dal 1970 al 1983): quella di Gavino Ledda, Tiziano Terzani, Tommaso di Ciaula. La collana fu un successo clamoroso, sia dal punto di vista commerciale che culturale, sdoganando l'impiego del narratore non professionista, «irregolare» - si legge nel risvolto di copertina - «rispetto ai parametri sia della letteratura pura sia del semplice documentarismo». Anche Canalini rappresentò una linea di congiunzione tra ricerca stilistica e industria editoriale, però portata all'estremo. Oggi si fatica a comprendere la forza della rivoluzione che compì insieme a Tondelli, perché produsse una nuova istituzione con tutti i suoi cascami, ma negli anni Ottanta la forza dei salotti letterari era al suo culmine. Tondelli e Canalini diedero la spallata finale e aprirono un filone di ricerca, quello sui giovani esordienti, così proficuo e promettente da diventare un genere letterario a sé. Ma Tondelli non lo pensava come un progetto industriale da replicare in serie, né riteneva che la narrativa generazionale fosse un valore in sé. Lui voleva soltanto mappare la generazione precedente alla sua e aprire un contesto discorsivo differente da quello dei media, alla ricerca di tutti quegli elementi di continuità e di diversità culturale rispetto ai giovani degli anni Settanta. A Canalini interessava invece la scrittura come strumento di conoscenza, una sorta di parente pop della filosofia teoretica, lavorando sul sound degli anni Novanta.
Ecco, uno così non poteva che essere odiato. Non per questioni di carattere, ma perché non gli è mai stato perdonato di aver svolto una ricerca d'avanguardia e di successo. Dopodiché, è morto. Adesso siamo liberi di provare affetto e riconoscerne la grandezza. La morte scioglie i vincoli e ci permette di giudicare una persona con meno severità. Perfino competitor dell'epoca, o scrittori anche molto distanti dalla sua sensibilità, all'improvviso si sono sciolti in un accorato ricordo. Ma il commento che più mi ha colpito è stato quello di una persona che non lo conosceva, una psicologa, che ha scritto: «Se ne va una persona ritenuta grande nel mondo dell'editoria e io nemmeno so chi sia. Pare una morte inaspettata e improvvisa e ancora nel cuore di anni attivi». Ancora nel cuore di anni attivi. Bello sarebbe se fosse davvero così.
Ps: Che fine ha fatto Vignola?
* Rifondatore, nel 2003, di Transeuropa Edizioni
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