Roma - In Italia, per presentare il suo nuovo album, il nono, e partecipare come ospite d’onore alla serata di Miss Italia, Lenny Kravitz mostra una maturità e una profondità artistica inedita. Black and White America, questo il titolo del cd registrato per l’etichetta RoadRunner (distribuito dalla Warner), ha già ricevuto il favore della critica e del pubblico. E il primo single, Stand, è tra le canzoni più ascoltate alla radio durante l’estate. L’artista, newyorkese di nascita e californiano di formazione sarà di nuovo in Italia a novembre con due tappe del suo Black and White Europe tour: al Palaverde di Treviso il 20 e al Mediolanum Forum di Milano il 21.
Com’è nata la canzone che dà il titolo all’album?
«Mi è capitato di vedere in tv un documentario sul razzismo in America negli anni Sessanta. È da lì che sono partito. Da qualcosa che sento personalmente visto che i miei genitori sono una coppia mista che in quegli anni ha faticato non poco per fare accettare la propria scelta».
E oggi? Al tempo di Obama presidente si può ancora parlare di razzismo?
«Il razzismo ha solo cambiato pelle. Soprattutto per colpa della political correctness. Ora i razzisti nei loro discorsi sono più subdoli e più attenti alle parole che usano. Ma anche più determinati perché sentono il terreno franargli sotto i piedi».
Quindi non bisogna abbassare la guardia.
«Certo. E anche nella musica è necessario dare un messaggio di apertura. C’è troppo snobismo nella diffusione dei generi. Ci sono radio che non trasmettono certi tipi di canzoni, altre che si rifiutano di passare brani dove compaiono strumenti poco canonici. Io combatto anche questo tipo di razzismo».
E il suo ultimo lavoro sembra, infatti, una summa di generi e stili che l’hanno influenzata. Anche se alcuni critici lamentano il suo guardarsi troppo alle spalle.
«Non è vero. Anche oggi si sentono cose notevoli. Tra tutti mi viene in mente The Miseducation of Lauryn Hill, però è un fatto che la genialità degli anni Sessanta e Settanta oggi è merce rara».
È stato tra gli ultimi a lavorare con Michael Jackson per una canzone, «Another day», poi inserita nell’album postumo del 2010. Che ricordo ha di lui?
«Un ricordo fantastico. Persona amabile e simpatica e, sul lavoro, assolutamente pignola. Semplicemente il più grande di sempre. I suoi dischi sono pietre miliari. Il mio preferito resta Off the Wall. Però è il suo lavoro con i Jackson Five che andrebbe rivalutato. Così piccolo era capace di cantare con un’intensità e una professionalità della quale solo grandi interpreti come Aretha Franlkin e James Brown erano capaci».
Nella copertina del disco appare una sua foto da bambino. Sulla fronte ha disegnato il simbolo della pace. Dov’è stata scattata e perché l’ha scelta?
«L’ha scattata mio padre durante una festa nel cortile della scuola. La mia faccia seriosa era una risposta alla sua. Il simbolo della pace lo aveva disegnato mia madre che durante la festa aveva allestito un banchetto dove si divertiva a pitturare le facce dei bambini. L’ho scelta perché mi sembra rappresentativa di un’epoca e soprattutto perché è proprio a scuola che ho imparato a convivere con i problemi razziali. La mia è una famiglia multirazziale e quindi sono praticamente nato in un ambiente che rifiutava steccati di ogni tipo. Quegli steccati, però, li ho conosciuti a scuola».
Suo padre, amico di Miles Davis, è un noto produttore musicale di origine ucraina. Sua madre viene dalle Bahamas.
«Essere me stesso, sempre e comunque. Questo è il più grande insegnamento che mi hanno trasmesso. Lo so. Detto così può sembrare poca cosa. In verità oggi è più difficile di quanto sembri».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.