Mentre una parte di sinistra, qualsiasi cosa indichi oggi questa parola, insiste sulle tare del libero mercato, un'altra parte si interroga, in modo più interessante, sull'esistenza stessa del libero mercato, mettendola in discussione. È una riflessione che può e deve interessare anche la destra, qualsiasi cosa indichi oggi questa parola.
In soldoni: il liberalismo descriveva uno status quo ormai superato. È roba ottocentesca, come il marxismo, del resto. Entrambe le dottrine si riferivano a un mondo nel quale lottavano tra loro piccole, medie e grandi aziende. Lo Stato era forte, i parlamenti contavano, i partiti anche. Da qui, il desiderio di limitare i confini della mano pubblica e di lasciare il massimo spazio alla concorrenza tra imprese, a tutti i livelli. Lo scenario è completamente cambiato. Il capitalismo è diventato alta finanza, e le ripetute crisi, l'ultima, clamorosa, del 2008, hanno causato una ristrutturazione del mercato. Le grandi corporation, le uniche a poter resistere, si sono mangiate piccoli e medi imprenditori.
Aggiungiamo altri elementi. La globalizzazione, per sua natura, impone una «semplificazione» del mercato. Sopravvive chi è in grado di mettere in campo economie di scala e distribuzione capillare. È una seconda condanna a morte delle aziende «di famiglia», ancora più fatale della prima. Poi è cambiato perfino questo scenario: i nuovi attori protagonisti sono i colossi del digitale rispetto ai quali manca una vera giurisprudenza. Cosa sono Facebook, Google, Twitter, Amazon? Un moderno tipo di Stato sovranazionale e per così dire privato? Prendiamo gli studi di McKenzie Wark, in Italia pubblicati dall'editore Nero (il nero è il colore dell'anarchia). In Il capitale è morto, il peggio deve ancora venire, la studiosa, che viene dal marxismo, sostiene una tesi radicale: la battaglia per il possesso dei mezzi di produzione è da archiviare come cosa antica. Oggi la produzione di oggetti materiali, in rotta verso la completa automazione, non conduce a un reale potere e non può essere l'oggetto della contesa. L'affare del millennio è la raccolta, lo stoccaggio e l'analisi delle informazioni. I media della Silicon Valley sono dunque il cuore dell'attuale (e probabilmente futuro) assetto economico.
L'alleanza, tragica, tra potere politico e media digitali conduce al «capitalismo di sorveglianza» in cui la massa di cittadini, debitamente schedati, si muove nel mondo reale e virtuale sotto l'occhio attento, e per niente benevolo, dello Stato e dei social. L'analisi dei big data ha capacità predittive: i media digitali conoscono, a volte prima di noi stessi, i nostri desideri e le nostre idee. Cosa rischiamo in concreto? La libertà. Chi ci profila, ci influenza, ci condiziona e infine ci imprigiona. Certo, da qualche parte, non importa più dove, ci sono anche magazzini e camion e manodopera, ma la vera fonte della ricchezza sono l'informazione e i brevetti necessari per mantenere il monopolio sulle tecnologie informatiche. Che senso ha utilizzare il marxismo classico e il liberismo classico per capire questa situazione? Secondo McKenzie Wark, nessuno.
Smontato e osservato da vicino il nuovo insieme di relazioni tra informazioni, tecnologia e potere, dovrebbe arrivare il momento di una proposta per salvare la libertà individuale. E qui le idee iniziano a latitare. Eppure qualcosa resta. Una serie di domande incalzanti.
Accanto alle grandi domande, ci sono anche quelle all'apparenza più piccole: ad esempio, non sarebbe male interrogarsi su quale sia il ruolo di scienziati (e ingegneri) nella società contemporanea. Non per contestare la scienza, ma per capire se possa, anche suo malgrado, diventare uno strumento di oppressione. Dalle risposte che sapremo trovare dipende il nostro destino.
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