
Ventiquattro Caravaggio in quattro stanze: basterebbe questo per dire che Caravaggio 2025, la mostra che da oggi e fino al 6 luglio presenta a Palazzo Barberini un'infilata difficilmente eguagliabile di capolavori, alcuni riscoperti ed esposti per la prima volta in Italia, merita il maiuscolo del titolo. Curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, che delle Gallerie Nazionali di Arte Antica è volitivo direttore, promette di fare concorrenza a Vermeer (ricordate la «mostra delle mostre», al Rijksmuseum di Amsterdam, nel 2023?), e del resto siamo già a 60mila prenotazioni prima ancora di cominciare.
L'attesa era alta, per un progetto che ha richiesto non poche doti di diplomazia culturale per gestire prestiti complicati (girano cifre favolose sulle coperture assicurative) e la collaborazione, non scontata nel Bel Paese, tra diverse istituzioni e quindi Palazzo Barberini, Galleria Borghese, che porta in dote tre dipinti, la direzione generale del Mic e il sostegno di Intesa Sanpaolo, dalla cui collezione viene peraltro il Martirio di Sant'Orsola, dipinto da Caravaggio pochi giorni prima del suo viaggio di ritorno da Napoli a Roma, tragicamente interrotto sulla spiaggia di Porto Ercole a soli 39 anni in circostanze su cui gli storici ancora si arrovellano. Dicevamo: l'attesa era alta e il risultato è all'altezza delle aspettative. «Una mostra con questi dipinti e di questa qualità è un sogno», dice Salomon.
Il merito di Caravaggio 2025 non è tanto quello, diversamente da tante altre esposizioni a lui dedicate, di circoscrivere l'esposizione ai quadri autografi (con l'eccezione del Narciso di Palazzo Barberini, di attribuzione dubbia e volutamente posto isolato, a inizio di mostra) e nemmeno quella di alimentare la già consistente Caravaggio-mania. Questa mostra è un affondo sui 15 anni cruciali di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610): dall'arrivo nella Capitale, intorno al 1595, alla morte. La parte meglio riuscita? Il confronto inedito e suggestivo tra Maria e Maddalena, prestito dal Detroit Institute of Arts, Giuditta che decapita Oloferne di Palazzo Barberini e Santa Caterina d'Alessandria che, arrivata come super-star dal Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, «torna a casa» dopo 90 anni ovvero da quando, per sciagurata decisione del governo Mussolini, fu permessa la diaspora della raccolta Barberini. «Si pensa che per le tre figure femminili sia stata usata la stessa modella, la cortigiana Filide Melandroni, ma non tutti gli studiosi concordano: di certo, Caravaggio si comporta da regista della scena» dice Terzaghi. Altro confronto interessante è quello tra le opere realizzate dopo la fuga da Roma di Caravaggio, causa uccisione durante una partita di pallacorda di Ranuccio Tommassoni, e quindi la Cena in Emmaus da Brera, il San Francesco in meditazione, il David e Golia della Borghese e l'Ecce Homo, rinvenuto casualmente in Spagna nel 2021 e di proprietà privata di un collezionista inglese che lo ha acquistato in asta. Gli occhi sono tutti puntati su di lui (non i cellulari: non si può fotografare) perché è la prima volta che è esposto in Italia: il dibattito sulla datazione resta aperto, come si certifica anche nel corposo catalogo edito da Marsilio Arte. Ma queste sono cose che in fondo interessano solo gli specialisti: ciò che invece ben si gusta della mostra è la chiara scansione cronologico-tematica in quattro sezioni, una per ogni sala. Si comincia con il debutto romano del Merisi, arrabbiato col Cavalier d'Arpino che lo costringeva a dipinger nature morte (e le conseguenze le vediamo nel Bacchino malato dalla Galleria Borghese) e poi capace di conquistarsi la fiducia del raffinato cardinal del Monte cui appartenevano i Musici (notevole prestito dal Met di New York), la Buona Ventura dalla Pinacoteca Capitolina e i Bari (delizioso dipinto dal texano Kimbell Art Museum di Fort Worth), pregiati esempi della «pittura comica caravaggesca».
Nell'anno di grazia 1600 qualcosa cambia nella vita del Merisi: è incaricato di dipingere due tavole nella Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo e la prima versione di una delle due, realizzata su prezioso legno di cipresso è una delle sorprese della mostra: la maestosa Conversione di Saulo della Collezione Odescalchi è infatti difficilmente esposta. L'anno successivo Caravaggio dipinge il noto ciclo di San Matteo a San Luigi dei Francesi, «ingagliardisce gli scuri» e s'inventa quel suo stile fatto di squarci di luce e umanità profonda. È questo anche il periodo dei ritratti, tra cui quello a Maffeo Barberini che il mitico Roberto Longhi aveva scoperto e attribuito nel '63 e che poi era sparito dalla circolazione (appartiene a un privato). Salomon non nasconde l'interesse di Palazzo Barberini, dove il dipinto è stato esposto già lo scorso novembre in una mostra-assolo per la prima volta dal ritrovamento, ad averlo in collezione e del resto l'ultimo dipinto del Merisi acquistato dallo Stato è stata proprio la Giuditta del museo romano, nel lontano 1971. Trattative in corso? Bocche cucite, ma ci si spera. Un'ampia sezione a sé è dedicata alla pittura religiosa e tragica del Merisi, dove spicca la Flagellazione da Capodimonte, prima del finale di partita.
Caravaggio è scappato a Malta per entrare nell'ordine dei Cavalieri così da rinobilitarsi agli occhi del Papa e poter tornare a Roma: grazie al Ritratto di cavaliere di Malta, prestito dagli Uffizi-Palazzo Pitti, guadagna punti ma poi inciampa di nuovo (risse, carcere, fuga). Approda a Napoli: il Martirio di Sant'Orsola, che vediamo fresca di restauro, è l'ultima tela dipinta prima di imbarcarsi per l'Urbe, dove non arriverà mai. Bentornato allora a Roma, Caravaggio.
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