Visitando la ben ordinata mostra della Quadriennale d'arte 2020, «Fuori», ho trovato molti stimoli ed alcuni accertamenti, soprattutto per la presenza di artisti storici, di generazione alta, anche ultra ottantenni e alcuni, incredibilmente, ma non immotivatamente, morti (come Giuseppe Chiari, Nanda Vigo, Salvo). Fortunatamente viva, invece, Lisetta Carmi, è presente con le intensissime fotografie sul Parto, risalenti in verità al 1968, e avendo la meravigliosa fotografa scelto da qualche decennio di abbandonare il mondo dell'arte e della fotografia per ritirarsi in povertà e in solitudine, dopo aver fondato, nel 1979, un Ashram in Valle D'Itria su ispirazione del maestro buddhista Babai. Difficile considerarla una contemporanea nella sua (in)attività attuale.
Ma la Quadriennale ci vuole sorprendere, e talvolta con gli effetti speciali di personalità sofisticate come il regista Yervant Gianikian (classe 1942), con Angela Ricci Lucchi (morta nel 2018), con un lavoro del 2013. Bizzarro che, ignorando legittimamente la morte, l'importante video dei due autori sia annunciato in questi termini: «per Quadriennale d'arte 2020 Gianikian e Ricci Lucchi (morta appunto nel 2018) presentano Pays Barbare ( 2013), pellicola che affronta la rappresentazione del potere fascista...». Non potendo che compiacermi dell'andamento capriccioso della Quadriennale curatoriale, impostata da Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, guardo con rinnovato compiacimento all'opera (dimenticata) di Sylvano Bussotti che frequentai e amai negli anni Settanta, a Padova, a fianco dello zio Tono Zancanaro, meraviglioso disegnatore, e che ritrovo (smemoratamente) vivo, quasi novantenne dopo i tanti anni trascorsi. Cercherò di andare a visitarlo a Milano: vero talento di invenzione tra musica e pittura, le cui opere, i costumi di scena e altri documenti sono dichiarati «provenienti dall'archivio Ricordi di Milano», a dare il senso della profondità fra contemporaneità e storia di questa Quadriennale. Tra gli affondi storici, notevoli anche quello su Irma Blank, nata nel 1934, su Simone Forti nata nel 1935, sul trascurato Alessandro Pessoli e sulla potente Cloti Ricciardi, nella notevole performance «contro» lo spazio. In questo intreccio generazionale sarà dunque opportuno che io ritorni, in un'altra occasione, a parlare della Quadriennale.
In questa circostanza mi stupisce un giovane artista, Guglielmo Castelli, nato a Torino nel 1987, che presenta il suo attualissimo Ordine nostalgico di un assetto spaziale, concepito tra 2019 e 2020 ovvero, com'è definita, «una installazione che comprende un gruppo di tele di diverse dimensioni e alcuni piccoli disegni». Un artista nato nel 1987 è quello che si ci aspetta di trovare in una Quadriennale che testimoni l'attuale situazione dell'arte in Italia. La stessa antiporta del catalogo Treccani indica un tempo analogo a quello che io stabilii per il Padiglione Italia, sotto la mia direzione, nel 2011, e cioè l'attività degli artisti dall'inizio del millennio. Qui si parte, con relativa documentazione fotografica, dal 2011, quando il governo tecnico di Mario Monti subentra al IV governo presieduto da Silvio Berlusconi, per arrivare al 2020, quando Mattarella, in occasione del 25 aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, porge l'omaggio all'altare della Patria da solo, «a causa delle misure di sicurezza per l'epidemia di Covid-19». Ci aspetteremo dunque di vedere documentati i testimoni dell'arte in questo decennio. Abbiamo invece visto un diverso procedimento, non privo di stimoli e suggestioni. Ma la presenza di Castelli, con le sue fantasiose tecniche miste, lascia spazio a una quantità di artisti, anche soltanto nel segmento della pittura figurativa, che potevano essere presenti in questa Quadriennale.
Gli storici che rubano loro lo spazio determinano un interrogativo. A fronte di Castelli, e con perfetta legittimità e perfino con singolare affinità, potevano essere presenti maestri della figurazione come Lino Frongia, Nicola Samorì, Nicola Verlato, Enzo Cucchi, e altri sparsi. Ma Castelli mi impone di richiamare i maestri della scuola di Palermo sostanzialmente ignorati, pur nel loro merito distinto (Francesco De Grandi, Alessandro Bazan, Fulvio Di Piazza, Andrea di Marco), alcuni dei quali legittimamente presenti nella bella mostra «Ciò che vedo. Nuova figurazione in Italia», alla Galleria Civica di Trento, curata da Margherita de Pilati; e, isolato ma potente nel suo spazio vertiginoso e nei suoi soggetti satirici e impietosi, Enrico Robusti, cui è dedicata ora una mostra monografica al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci.
Se mai vi fu pittura labirintica, in un assetto spaziale che allontana e avvicina le immagini, e muove lo spazio con spirito borrominiano, questa è quella di Enrico Robusti. Attento ai maestri eccellenti, scavalcando la Quadriennale, se ne accorge Camillo Langone, che scrive: «Robusti è un pittore coraggioso e indipendente, fiorito lontano, dal punto di vista geografico ma soprattutto culturale, dai centri dell'arte per addetti ai lavori, spesso concettuale e quasi sempre afasica. Invece Made in Italy parla a voce alta, esprimendo un ottimismo incredibile e ammirevole. Robusti ha dipinto l'Italia che tutti vorremmo e che forse potrebbe perfino essere, se riuscissimo a liberarci dalla negatività che ci opprime in tutti gli ambiti».
Se musei civici e
fondazioni illustri ci indicano i faticosi percorsi degli artisti contemporanei, credo che sarebbe comunque opportuno che anche la Quadriennale, per rispetto della realtà del nostro tempo, se ne facesse carico. Alla prossima.
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