«Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me». L'attacco fulminante di Alcide De Gasperi alla Conferenza parigina di pace, il 10 agosto 1946, non avrebbe sfigurato tra i più celebri di Winston Churchill, principe dell'oratoria bellica, coronata dal Nobel per la letteratura. E forse si collocava ancora più in alto, poiché il capo del governo italiano giocava fuori casa, solo contro tutti; parlava a nome di un Paese sconfitto, nel ruolo del topolino circondato dai quattro gattoni vincitori della guerra, scettici e in attesa di farne un solo boccone. Eppure quel giorno il sessantacinquenne di Pieve Atesino, borgo trentino cattolico e asburgico, cresciuto da giovane a pane e sagrestia, solitario escursionista fra le Dolomiti e timidissimo con le ragazze, facile preda dei vignettisti per il fisico impiegatizio, occhialuto e con il naso a becco, privo di particolari doti oratorie, pronunciò il discorso più bello e importante della vita, consegnandosi alla storia. Naturalmente i gattoni vincitori, americano e sovietico in testa, non si lasciarono commuovere dalla sua appassionata rappresentazione di un'Italia «cobelligerante», ignorando le richieste economiche e territoriali di chi non si era piegato al fascismo. Tuttavia quel discorso, da solo, tra i numerosi raccolti nell'antologia Lo scudo e la croce, pubblicata da Historica nel settantesimo anniversario della scomparsa, basterebbe a collocare De Gasperi alla testa dei più importanti statisti italiani del Novecento.
Del resto, come risulta da interventi, articoli e lettere, non fu autore di quel singolo pezzo di bravura. Basterebbe a provarlo l'antecedente replica a Mussolini alla Camera, il 17 novembre del 1922, nella fase rampante del fascismo, quando aveva ripreso, capovolgendone il senso e negandone le conclusioni, le celebre sprezzanti parole del duce a proposito dell'«aula sorda e grigia» e del «bivacco di manipoli».
Nella personalità cauta e introversa di De Gasperi, lontana dall'agonismo aggressivo della politica italiana - anche perché si era formato nella compassata atmosfera del parlamento di Vienna - si celava una dote ignota agli avversari. Il carattere suscettibile di depressioni e pessimismo, a tratti persino timoroso delle minacce fisiche, recuperava d'incanto fermezza d'azione nei momenti di pericolo estremo, quando erano in gioco la sopravvivenza del partito - prima popolare e poi democristiano - e le sorti dello Stato. Era allora che sfoderava, estraendola all'improvviso da una riserva insospettata della sua personalità, la capacità di mediare fra spinte contrapposte, accettando l'inevitabile, mirando alla concretezza, e conquistandosi un primato indiscusso fra i compagni di partito, mentre spiazzava gli avversari (come constaterà amaramente l'arcinemico Togliatti).
Così si spiega non solo la smisurata longevità politica - prolungatasi dal primo dopoguerra al 1954 - ma anche la capacità di svoltare e rinascere sette volte - come le vite dei gatti - senza smarrire le stelle polari. Primato della Chiesa, dogmatismo cattolico ma apertura a un'etica laica, anticomunismo disponibile alla dialettica, ostilità al fascismo nei limiti della ragione pratica, liberismo economico corretto da un interventismo statale tratto sia della dottrina sociale di Leone XIII - la Rerum Novarum - sia del keysenismo americano alla Truman.
Ed eccole, le sue sette vite: coerenti nella costante ispirazione religiosa, sorrette da un'ambizione ben dissimulata, e applicate ogni volta in modo differente alle svolte della politica. La prima, destinata a concludersi nel 1918, nei panni di deputato al parlamento asburgico, interprete di un'italianità non irredentista ma piuttosto federalista, tutta concentrata sulla specificità cattolica della piccola patria trentina. (Di quella fede nell'autogoverno, che oggi chiamiamo sussidiarietà dal basso, resterà testimonianza inequivocabile la Risposta alla Corona sabauda del 1921, in difesa delle autonomie locali). Poi la seconda, dopo la Grande Guerra, già nell'orbita di Sturzo, quando è deputato popolare a Roma, oppositore del fascismo, sorvegliato speciale e imprigionato a Regina Coeli, sull'orlo del suicidio. Quindi la terza vita, affidata alla carità di Pio XI, e per tredici anni «impiegato soprannumerario» della Biblioteca Vaticana, con uno stipendio di mille lire al mese e il compito modesto di recensire libri e giornali. (Ma da quelle svariate letture maturerà il progetto di un nuovo partito dei cattolici, con l'approvazione del futuro Paolo VI). La quarta vita precede, accompagna e segue immediatamente la Liberazione, allorché quella particolare capacità di mediare, al centro della scena politica, gli consentirà di imporsi al Cln antifascista, vincere le elezioni per l'Assemblea Costituente, e poi guidare un governo tripartito con la presenza ingombrante ma necessaria dei comunisti.
Quindi, nel 1947, arriva la rottura con Togliatti, sollecitata sia dalla Chiesa che dagli Usa, ma colta al volo con fermezza, e coronata dall'entrata nel governo di personalità liberali come Einaudi, Merzagora e Sforza.
La sesta vita sarà quella ormai leggendaria, in cui l'ideologia centrista, temperata dai partiti laici minori, porrà le basi del miracolo economico. Cui oggi libri e documentari riservano l'albo d'oro dei ricordi, dalla riforma agraria a quella della casa e della quasi piena occupazione, prologo all'irruzione di auto, televisione, autostrade, frigoriferi, vacanze di massa e fiducia nel domani quotidiano. (E anche abbozzo incompiuto di un autentico conservatorismo all'italiana di respiro europeo).
L'ultima vita, la settima, sarà la più amara, e coinciderà nel 1953 con l'insuccesso della legge maggioritaria - ribattezzata dall'opposizione «legge truffa» - che avrebbe dovuto consegnare al governo De Gasperi una stabilità a prova di bomba, nel Paese e in parlamento. Mancato per un soffio quell'obiettivo, su cui lui aveva puntato con insolito azzardo tutte le carte, la Dc non lo perdonerà e l'anno successivo lo disarcionerà, sostituendolo con lo scalpitante Fanfani.
(Da quel momento, altra eredità disattesa degasperiana, la cultura maggioritaria tenterà faticosamente e invano di liberare l'Italia dalla cronica instabilità e frammentazione politica).Sarà poco più tardi, il 19 agosto di 70 anni fa, che Alcide si spegnerà sereno nel suo Trentino, ancora sognando passeggiate alpine, e avendo esaurito le sette vite a lui concesse dal genio per la politica.
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