La cerimonia dell'omakase col maestro Nakaji da Hatsune

Hatsune in giapponese vuol dire "suono di primavera"

La cerimonia dell'omakase col maestro Nakaji da Hatsune
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Dieci commensali. Un bancone. Un maestro di sushi che cucina per tutti, anzi per ciascuno separatamente. Perché ogni servizio è un atto di amore, una piccola liturgia da Hatsune Zushi, l'omakase del Ronin di Milano. Che da qualche settimana è affidato in maniera permanente, dopo lo straordinario successo dei pop-up degli ultimi anni, il maestro Katsu Nakaji, che così ha la sua prima «casa» al di fuori del Giappone.

Hatsune, che in giapponese vuol dire «suono di primavera», è il nome dello storico ristorante sito a Tokyo della famiglia Nakaji, che si tramanda di generazione in generazione il titolo di «shokunin», che nel ramo sushi sono tra i pochi (sette al mondo) a detenere.

Si spiega così il fatto che da quando ha aperto, il 16 gennaio scorso, Hatsune Zushi sia subissato di richieste di prenotazioni, malgrado il doppio turno (alle 19,30 e alle 21,45, e se c'è da aspettare lo si fa nel bellissimo «club» al terzo piano) e malgrado il costo non certo lieve dell'esperienza: 160 euro a persona (bevande escluse) che diventano 280 se i pianeti si allineano e dietro al bancone c'è lo stesso Nakaji. L'esperienza, lo dico dopo averla provata, è straordinaria: una dozzina di passaggi ciascuno vissuto assistendo in silenzio alla preparazione di ogni singolo nigiri (fantastici soprattutto l'Otoro, la ventresca di tonno, e l'Anguilla) e venendo servito direttamente dalle mani del sushi-man. Già perché qui si mangia rigorosamente con le mani.

Ronin si trova in via Alfieri, e occupa un'intera palazzina che chiunque passi per Chinatown non può non notare: dentro ci

sono un ristorante robata (la griglia giapponese), un più informale locale street food al piano terra, un cocktail bar e alcune sale per il karaoke. Un caso quasi unico di locale completo e con varie anime, tutte da godere.

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