Chavez e i soviet «Mi ispiro a Toni Negri»

Adesso Hugo Chavez fa paura alla sinistra latinoamericana. Meglio, fa paura alla Sinistra e all’America Latina. Al punto da spingere il leader naturale e consolidato del «progressismo» in quella parte del mondo, il brasiliano Lula, a lanciare un allarme e un j’accuse contro il «flirt con l’autoritarismo» del presidente venezuelano e il rischio che egli «venga visto come un dittatore perpetuo». Parola di Lula, che ancora nel settembre scorso, durante una visita in Venezuela aveva difeso ed elogiato Chavez e affermato, in polemica diretta con l’opposizione di Caracas, che il Paese era «democratico».
Che cosa è accaduto nel frattempo per fargli cambiare così radicalmente idea? Basta riguardare quello che Chavez ha detto durante la campagna che lo ha portato alla rielezione e soprattutto dopo la vittoria e la conferma al potere. Basta guardare quello che fa, ascoltare quello che dice e soprattutto quello che dice che farà. Nelle ultime ore, ad esempio, egli ha citato un altro paio di «filosofi» adottati dalla sua «rivoluzione bolivariana». Non gli bastavano Castro, Guevara e Mao Tse-Tung. Adesso ha aggiunto Trotzki e due italiani di dimensioni alquanto differenti: Antonio Gramsci e, sì, Toni Negri. E ha annunciato la sua ferma intenzione di trasformare il Venezuela in una Unione Sovietica, quella delle origini, leninista e, appunto, trotzkista. Del rivale di Stalin non si stanca di esaltare il concetto della «rivoluzione che non finisce mai». Quanto al modello economico egli è andato ben oltre, in pochi giorni, delle nazionalizzazioni, statizzazioni ed espropri annunciati a tambur battente e che hanno fatto crollare le Borse in tutto il Sud America. Adesso promette una completa «rivoluzione del sistema produttivo», l’abbattimento della proprietà privata e la sua trasformazione in «proprietà condizionata», in cui ci sia una «relazione diretta fra le scelte delle aziende e la comunità sociale». L’idea del profitto rimane, ma «liberata» dai legami con la produttività. La formula è quella del «guadagno per tutti»; che non è la cogestione aziendale del modello tedesco bensì la direzione delle aziende da parte dei consejos obreros, i «consigli di fabbrica». Consigli che dovranno prendere in mano i rapporti con i Comuni e, in particolare, gestire le tasse. In pratica, dirigere.
Il concetto è tradotto paro paro dal russo, da un termine, soviet, che è rimasto nella «ragione sociale» dell’Urss fino alla sua dissoluzione ma che già al principio degli anni Venti il partito di Lenin, Stalin e Trotzki aveva collocato, come pratica, in soffitta. Infatti il portavoce di Chavez, il ministro del Lavoro José Ramon Rivero, ha evitato di usarlo e ha precisato che i consejos verranno «riadattati alla realtà nazionale». Pressappoco come l’amato modello di Chavez, Fidel Castro, aveva proclamato di voler fare a Cuba.
Ma la realtà del programma dell’uomo di Caracas è ancora più arcaica, si prospetta come un ritorno alle primissime esperienze del comunismo. E infatti Hugo ha terminato la sua ultima concione rilanciando due slogan «arcaici»: «Tutto il potere ai Consigli» e «Socialismo o muerte».
Per adesso «è arrivato il socialismo», intitola trionfalmente a tutta pagina il quotidiano El Mundo, il più influente fra i quotidiani vicini al regime. Uno dei fogli superstiti dell’opposizione, Tal cual, è uscito invece con un fondo dal titolo «Il monarca» in cui denuncia come il «socialismo del ventunesimo secolo» promesso da Chavez stia degenerando con estrema rapidità nel comunismo tragicamente fallito nel secolo scorso. Il quotidiano si chiede anche il perché e non è il solo. È rimarchevole, ad esempio, con quale indifferenza e sostanziale fiducia la rielezione di Chavez sia stata accolta dal mondo economico internazionale, inclusa l’America.
Ho sotto gli occhi la pagina finanziaria del New Yorker in cui si rassicurano gli investitori che il Venezuela rimane un Paese aperto e promettente per gli investimenti stranieri, grazie al dilagare del consumismo dovuto al prezzo del petrolio quintuplicato da quando Chavez è al potere. «Sebbene la sua retorica non sarebbe fuori posto nel Libro Rosso di Mao, la vita per molti venezuelani assomiglia di più al catalogo di Neiman-Marcus» e dei negozi di lusso. Il titolo dell’articolo è «Sinergie col Diavolo» (l’epiteto che Chavez adopera a proposito di Bush) ed è illustrata da un disegno con la falce e il martello costituita la prima dal getto del petrolio da un barile e il secondo da un braccio che regge un pacco di dollari.
Le cose evidentemente non stanno andando così. È intervenuta una recisa svolta «ideologica», che lo storico Fernando Coronil attribuisce alle dimensioni del successo elettorale: con 7 milioni di voti contro 4 al candidato dell’opposizione, Chavez si sentirebbe ora di potere e dovere realizzare le più stravaganti promesse della sua retorica elettorale. Pensa, insomma, di avere ricevuto dagli elettori un «assegno in bianco». Che lo ha incoraggiato, evidentemente, anche alla svolta autoritaria denunciata da Lula, che parla ora con l’amara forza della delusione: «Chavez sta superando i confini della democrazia, perderà l’appoggio dei settori moderati della sinistra mondiale e finirà prigioniero delle correnti più estremiste.

Il suo piano di nazionalizzazione delle imprese ridurrà gli investimenti esteri, porterà recessione a tutto il Sud America, bloccherà il processo di integrazione economica continentale e rischia di isolare completamente il Venezuela nel mondo».

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