Chi viveva nel secolo scorso campava meno di noi, e viveva peggio. Oggi esistono biomedicina, farmaci innovativi, apparecchiature avveniristiche, mille business attorno alla qualità della vita. Eppure il diritto alla salute non è assicurato. La sanità calabrese, per esempio, non garantisce l'aspettativa di vita della Lombardia. Nel Terzo mondo un servizio sanitario pubblico semplicemente non esiste. Chi soffre di una malattia rara dispone di pochissimi medicinali a prescindere dalla latitudine. E a un indiano malato di epatite C la cura innovativa costa 200 dollari contro i 700 addebitati a un egiziano e i 45mila euro pagati dal Ssn italiano (Iva esclusa) indipendentemente dal conto in banca del paziente, mentre negli Stati Uniti per lo stesso ciclo terapeutico (12 settimane) bisogna sborsare oltre 80mila dollari.
Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione assomiglia all'eguaglianza che vigeva nella Fattoria degli animali orwelliana: ha due velocità. Soltanto sulla carta quel diritto è identico per tutti. C'è chi può curarsi e chi no. Dunque, c'è qualcuno o qualcosa che decide chi è condannato e chi invece può salvarsi. Un «signore della vita» che stabilisce chi vive e chi muore.
IL BUSINESS DELL'EPATITE
Si chiama sofosbuvir il costosissimo principio attivo che ha rivoluzionato la cura dell'epatite C portando le guarigioni dal 60 al 95 per cento dei casi: è stato messo a punto da una piccola azienda, la Pharmasset, poi acquisita per 11 miliardi di dollari dal colosso Gilead Sciences. Il quale il primo anno di commercializzazione ha guadagnato 16 miliardi e il secondo 19 avendo venduto la terapia a peso d'oro. Racconta il professor Luca Pani, direttore (in scadenza) dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa): «Dai bilanci di Pharmasset i costi triennali di ricerca e sviluppo non hanno superato i 180 milioni di dollari, di cui appena un terzo per il sofosbuvir. Gli scopritori prevedevano di vendere il trattamento a 36mila dollari ma dopo il subentro di Gilead il prezzo è schizzato, almeno in Occidente».
Il caso è riesploso in questi giorni con interrogazioni parlamentari, ma tiene banco da due anni. Il procuratore Raffaele Guariniello aveva aperto un'inchiesta sui ritardi con cui le regioni rendevano disponibile il farmaco. Motivo semplice: il costo proibitivo. Il prezzo dei farmaci è determinato da una trattativa tra il produttore e l'Aifa, e Gilead propone il sofosbuvir a prezzi differenziati, più bassi nel Terzo mondo e iperbolici per chi se lo può permettere. In questo modo riesce a piazzare il suo farmaco ovunque. L'Aifa era riuscita a strappare condizioni di relativo favore (se paragonate agli Usa) e poi ha aperto la procedura di rinegoziazione visto che stanno arrivando altri farmaci a cifre inferiori: la concorrenza infatti si è subito tuffata in questo promettentissimo settore.
I SALVAVITA PER I TUMORI
«Meglio spendere meno e a lungo per curare un paziente cronicizzato, oppure 45mila euro subito per un farmaco che eradica il male?», si chiede Pani. È un dilemma drammatico. Non si può chiudere la porta all'innovazione e alle speranze dei malati ma neppure mettere a repentaglio il Servizio sanitario nazionale. I dati dell'ultimo monitoraggio della Ragioneria dello stato sul Ssn certificano 1,2 miliardi di disavanzo nei bilanci regionali soprattutto per la spesa farmaceutica ospedaliera, dove pesano appunto le specialità per l'epatite C. Se tale assistenza dovesse essere estesa a tutti gli italiani affetti (si calcola siano un milione) sarebbe la bancarotta.
Dai laboratori escono farmaci sempre più personalizzati e costosi. Vale anche per le terapie anticancro. Secondo la Federazione delle associazioni di volontariato oncologico (Favo) oggi sono disponibili 132 farmaci antitumorali di cui 63 immessi sul mercato negli ultimi 15 anni. Il costo medio di una terapia complessiva è passato da 3.853 euro nel 1995-1999 a 44.900 euro nel 2010-2014. «Conosco oncologie mediche racconta l'ex ministro Francesco De Lorenzo, presidente della Favo che esauriscono i fondi già a settembre-ottobre. I nuovi pazienti devono attendere il budget dell'anno successivo».
ALZHEIMER AL PALO
Aggiunge il professor Pani: «I costi di ricerca sono tali che il 40 per cento degli sviluppi non hanno motivi scientifici, ma commerciali e di sfruttamento dei brevetti. Non si trovano nuove molecole ma si modificano quelle esistenti, per esempio con nuovi dosaggi. Il ritorno medio dell'investimento è pari al 4-4,5 per cento netto con grande variabilità: nella cura dell'Alzheimer oggi si sta ancora sotto lo 0,3 mentre nelle ricerche oncologiche o sull'epatite si raggiunge anche il 10-15 per cento. Ditemi voi dove preferisce investire l'industria. Nella mia vita professionale mi è capitato di imbattermi in case farmaceutiche che, particolarmente negli ultimi anni, ragionavano come fondi di investimento».
Ma la ricerca è solo business? Non si dovrebbe investire sulle malattie rare o incurabili più che su quelle redditizie? «Numerosi medicinali spiega il professor Silvio Garattini, direttore dell'istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri - sono stati scoperti grazie a eventi casuali illuminati dal genio dello scienziato. Pensiamo alla scoperta della penicillina, il primo antibiotico: Fleming capì che quella formazione di muffa non era un esperimento fallito». La ricerca farmacologica dev'essere accompagnata da quella medica: «Senza sapere le origini del male non si possono trovare rimedi adeguati sintetizza Garattini , in ogni caso conoscere le ragioni non significa avere le cure».
Se la ricerca è duplice (cause e terapie), il costo è astronomico. Chiarisce Pani: «Portare un nuovo farmaco in commercio richiede almeno un miliardo di euro. Solo 5 su 10mila potenziali farmaci studiati raggiungono la sperimentazione clinica e appena uno viene messo in vendita. Si devono investire somme pazzesche senza garanzia di coprire le spese né di restare sul mercato. Questo è un settore ad altissima remunerazione ma con un'altissima probabilità di fallimenti».
L'INVESTIMENTO NELLA RICERCA
Il fattore economico oggi è l'elemento chiave delle cure. Più si investe più cresce la possibilità di trovare la novità terapeutica. «In realtà precisa Garattini - le Big Pharma destinano alla ricerca soltanto il 7 per cento del fatturato: la gran parte dei fondi è assorbita dallo sviluppo. Oggi la ricerca è prerogativa soprattutto di piccole start-up biotecnologiche come Pharmasset che approfondiscono pochissimi progetti per rivenderli a chi può svilupparli».
Chi indirizza i ricercatori? È tutto regolato solo dal parametro del profitto? «Patologie come la Sla o molti tumori spiega il direttore del Mario Negri - hanno tante cause diverse e ancora sconosciute. Certe ricerche sono complicate dal fatto che gli animali non offrono riscontri adeguati, anche se le sperimentazioni sulle cavie vanno fatte, con buona pace degli animalisti: per gli studi sugli animali occorre superare quattro livelli autorizzativi mentre per quelli sugli uomini basta il consenso del Comitato etico.
E poi c'è tutta la ricerca farmaceutica, i dosaggi, l'assorbimento, le possibili complicazioni. Il viaggio dal principio attivo al prodotto sul banco è lunghissimo. E c'è bisogno di molta ricerca indipendente dall'industria per evitare conflitti d'interessi».
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