La chiusura di cima Uluru non piace agli australiani

Aborigeni soddisfatti, ma la gente protesta: in tutti i luoghi sacri del mondo si può fare trekking

La chiusura di cima Uluru non piace agli australiani

«La fila di minga non c'è più». Djalu indica quella cicatrice di ferro e corde che ora non serve più. Lui è il guardiano del parco, uno dei ranger che vegliano su Ayers Rock, pardon, Uluru per la gente di qui, profondo cuore rosso del centro Australia, il monolito più fotografato dell'universo. Quei minga siamo noi, le «formiche» che, fino allo scorso ottobre, hanno potuto arrampicarsi su per questa roccia arancio accesa, violandone i segreti più reconditi, profanando la sua sacralità per il popolo degli Anangu e la gente degli Arrernte. L'olimpo degli aborigeni ora ha chiuso. Game over alle scalate e ai selfie acrobatici, intruppati fra le sue corde fisse e l'arenaria tirata a lucido dai troppi passaggi. Nel frattempo l'Australia andava a fuoco: da settembre ci sono stati morti, case distrutte e oltre 30mila miglia quadrate di terra devastate, con un grande rischio per molte specie animali. Mentre le Blue Mountains, Kangaroo island e l'outback occidentale restano ancora off limits, il fuoco ha miracolosamente girato intorno al cuore rosso degli Aussie, lasciando intatto Uluru. Qualcuno dice che sia una benedizione dell'olimpo degli aborigeni per la tanto agognata chiusura della roccia sacra; qualcuno ora teme un crollo delle visite.

Eppure la storia di questo shut down ha una cronaca annunciata: il conto alla rovescia era cominciato fin dal 2017. Allora il governo sancì che la montagna sarebbe stata restituita ai suoi traditional owners, gli aborigeni padroni di questa fetta del creato. Loro hanno sempre cercato di dissuadere i visitatori dal salire: parole, volantini, richieste cortesi. Poi anche cartelli: un giorno era il vento, un giorno era la nebbia, ma soprattutto, la richiesta di non scalare era un appello «a non violare il sonno di Yeperenye, Ntyalke e Utnerrengatye», i grandi bruchi che insieme formano il regno di Uluru. In realtà, messo il divieto, la moda si è scatenata ancora di più: negli ultimi mesi la roccia è stata presa d'assalto dal 20% di visitatori in più, rispetto alla media. «Salgo perché sono un australiano», era la risposta più ricorrenti ai media che andavano a caccia di interviste in quelle ultime ore di apertura della roccia sacra. Ora basterà aver proibito l'ascesa a preservare il senso del sacro di questa terra di sogni da un esercito di visitatori armati di bici, moto e pure segway? Tutti pronti alla tonica alternativa di compiere l'impresa, se non più in verticale, almeno in orizzontale, intraprendendo il trail di 10 km che fa da periplo alla roccia che dorme. Dal parco non ne sono sicuri. Qualcuno sussurra che è un controsenso tipico della filosofia downunder: «Chiudere Ayers Rock non è qualcosa da celebrare se non per gli aborigeni che incassano il 25% delle entrate del parco».

Vecchie ruggini fra indigeni e australiani d'importazione che fanno ricordare parole alquanto aspre, pronunciate nel 1985 - negli anni in cui il sito finiva sotto l'egida Unesco dall'incauto governatore del momento: «La roccia viene sottratta agli australiani e restituita a un piccolo gruppo di persone unsophisticated», il senso un po' troppo spiccio della sua arringa contro la cessione del terreno alla popolazione locale. Di poco sofisticato, in realtà, c'è stato anche qualche altro episodio. Ad Uluru si è visto un po' di tutto, negli anni: dal giocatore di golf che salì con la sua mazza per uno dei tiri più lontani della storia, alla professionista di striptease si chiamava Alezee Sery e correva l'anno 2010 che, giunta in cima, si esibì, «in onore delle divinità», nel suo numero full monty, di nudo integrale. Per non parlare dei rifiuti abbandonati in cima che, a ogni pioggia, scendevano, come rivoli, lungo le rughe della montagna. Ayers Rock ha richiesto il suo tributo con 37 morti - vento, arsura, colpo di sole e imperizia le principali cause - per una scalata che poteva divenire insulsa, come lo sono tutte le ascese poco consapevoli. «Eppure - obietta un altro ranger - ci sono altri monti sacri al mondo che non hanno chiuso: a far la differenza non sono un divieto, ma rispetto e consapevolezza». Già, sull'Olimpo e il Parnaso oggi, se Zeus manda neve, si può perfino sciare. Sul monte Sinai l'alba è ancora uno show da tutto esaurito, sul tibetano Kailash monte sacro per induisti e buddisti - e l'Ararat la cima su cui si posò l'arca di Noè si organizzano, pagando un permesso, trekking tutto l'anno.

Ora la paura è doppia: da una parte si teme un calo di visitatori sia per le conseguenze degli incendi nel Paese sia perché chi arrivava ad Ayers Rock lo faceva per farsi soprattutto un selfie in cima. Dall'altra si teme di aver solo spostato il problema un po' più in là: a poca distanza da Uluru ecco, infatti, le Kata Tjuta che noi occidentali conosciamo come monti Olgas e che nella bucket list, nella lista dei desideri e nei consigli di ogni tour operator, di solito vengono appena dopo la foto con Ayers Rock al tramonto o all'alba. Belle e selvagge anche più della celebre roccia, i percorsi che le attraversano, sono parte del celebre larapinta trail e sono una meraviglia, alla portata di tutti, fra cascate e scorci da finis terrae.

Anche queste sono montagne sacre: che cosa succederà se a qualcuno verrà in mente di scalarle? «Puoi entrare in casa mia, ma non per forza in tutte le stanze», risponde il saggio Djalu. Poi allarga le braccia e guarda lontano: i minga potrebbero tornare.

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