Sorrento - «Sò vecchio, mò me cacciano. Ma io e Massimo Ghini siamo più giovani di Jack Lemmon e Walther Matthau. Troppo tempo ancora ce devono sopportà!», commenta Christian De Sica, entrato nel Guinness dei primati con la formula del cinepanettone, quest’anno giunto al numero 26 per volontà del produttore Aurelio De Laurentiis, producer all’antica, tutto tigna, nonostante la crisi. Ieri lo sfaccettato attore di cinema leggero e drammatico, di spot pubblicitari e teatro ha ricevuto il Biglietto d’Oro a sancire, se ce ne fosse bisogno, che Christian non è più soltanto «il figlio di De Sica», ma è divenuto quel che era: un artista completo. E un uomo sottilmente malinconico, come sanno esserlo le persone di talento, seguite dal venticello dell’invidia di un ambientino tutto romano, che detesta le fortune altrui. Infatti quest’eterno ragazzone, che stavolta, in Natale a Beverly Hills, dice più parolacce dell’anno precedente, ti guarda con gli occhi velati e dice cose molto spiritose, senza battere ciglio. Magari una certa remotezza di sguardo gli viene da un incidente capitatogli nella notte di San Silvestro, l’anno passato, quando un petardo gli scoppiò in pieno viso e, per poco, non si giocava l’occhio. Però, eccolo sulla giostra promozionale, ad accompagnare qualche scena del cinepanettone 2009, dove lui fa Carlo, il classico mandrillo all’italiana, uno che non esita a mollare una signora (Sabrina Ferilli), al settimo mese di gravidanza. Un tipino poco fino, insomma: tatuato e sbrasone, per lui fare il missionario vuol dire mettere la donna in quella posa, detta «del missionario»: lui sopra, lei sotto. E al ragazzino, che gli chiede cosa fare, se arriva uno più ricco, più bravo e più bello a soffiarti la ragazza, Carlo risponde: «Te la devi pijà in der culo», con la stessa cinica insofferenza che Christian mostra in tv, quando negli spot con Belèn allontana l’imbucato di turno.
Prima nel «Guinness» dei primati, col cinepanettone, poi ecco il Biglietto d’oro: secondo lei, tutta questa popolarità, Christian, a che cosa la deve?
«Non so se sono un attore bravo, o un attore mediocre. Certo è che il pubblico mi ama. Soprattutto il pubblico giovane, per il quale sono come uno zio. Ragazze e ragazzi mi abbracciano, per strada, chiamandomi per nome. Sento il loro affetto e questo mi dà lo sprint, per continuare. Credo d’essere popolare perché non me la tiro, a differenza di molti miei colleghi».
Ha paragonato la coppia Lemmon-Matthau alla coppia formata da lei, con Massimo Ghini, anche quest’anno, nel film di Natale. Di voi, chi è Lemmon e chi è Matthau?
«Ma io e Massimo non siamo una coppia. Nelle coppie, uno dev’essere grasso e l’altro magro; uno ricco, l’altro povero... Qui, in Natale a Beverly Hills, siamo entrambi due carnefici, due farabutti borghesi, ex-boni e molto amici. Più che altro, siamo amici. Anche se, poi, ognuno prende la propria strada: Massimo fa Mattei in tivù, io me ne vado con Pupi. Però, facciamo bene i film insieme. Io Ghini l’ho pure diretto, in Uomini, uomini, uomini, inoltre eravamo nel cast di Compagni di scuola. Si tratta d’un sodalizio, più che d’una coppia. Il feeling è importante: per questo vorrei tornare sul set con mio cognato, Carlo Verdone».
In «Natale a Beverly Hills» recita con Sabrina Ferilli: c’è stato feeling anche con lei?
«Sabrina è divertentissima. Credo che da questo cinepanettone in poi, per lei si aprirà una strada come attrice comica, più che come sex-symbol».
Da un po’ in qua, lei è molto esposto, anche con gli spot pubblicitari, che sotto Natale s’intensificano. A parte il guadagno, che cosa le dà il mondo della pubblicità?
«A parte il denaro? Tanta popolarità in più. E pensare che quando ho cominciato a fare pubblicità, gli amici mi dicevano: “Che sei matto? Non verranno più al cinema!”. Invece il vigile Persichetti, per esempio, m’ha fatto entrare nelle case della gente. Una buona pubblicità aiuta più d’un brutto film».
A febbraio uscirà «Il figlio più piccolo», il film di Pupi Avati, che l’ha voluta in un inedito ruolo drammatico. Come s’è trovato a lavorare con lui?
«Come regista, lo conoscevo dai tempi di Bordella, un film sbagliato di trentacinque anni fa, che non ebbe successo. C’è che Pupi mi ricorda mio padre. Oltre ad essere un maestro, ha quel tipo di umanità e dà quei suggerimenti, che mio padre mi dava. Avati è uno al quale piace dialogare, non ti lascia allo sbando».
Senza i film di Natale, il nostro cinema starebbe
«È molto più volgare la tivù delle veline e della violenza. E pensare che censurarono La ciociara, perché mio padre, lì, diceva: “Stronzo”».
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