Quando si parla di potere divento romantico. Mi sforzo di pensare che non per forza logori solo chi non ce l'ha e non per forza chi lo detiene si trasformi in un nemico del popolo. Così, quando ho saputo che tra le novità Einaudi c'è un romanzo che si prefigge di raccontare il potere, e nella fattispecie il potere politico, ho voluto leggerlo subito. Spero sempre di trovare un punto di vista che mischi le carte, faccia saltare gli stereotipi; uno sguardo nuovo, insperato, che giunga a dirci che il potere è materia necessariamente complessa, e possibilmente lo esprima senza ricorrere al genere crime, che oggi pare sia l'unico praticabile per evitare di separare il bene dal male moralisticamente.
Ebbene, l'ho trovato in Pietà, di Antonio Galetta (Einaudi, pagg. 259, euro 18). Ancora più interessante è che l'abbia scritto un giovane di ventisette anni, perché risponde a una domanda che mi pongo spesso: si può osservare il potere senza prendere parte alla sua gestione? Si può sperare di comprendere cosa dell'essere umano trova vitalità e cosa mortificazione nel potere, riuscire cioè a catturarne una visione veritiera senza necessariamente stare tra i suoi gangli? Se lo si può raccontare solo osservando la vita di una piccola comunità di provincia vuol dire necessariamente che il potere è distribuito ai suoi membri più di quanto si creda, il che va già contro il pensiero comune. Non a caso bisogna parlare sempre di rapporti di potere, delle relazioni di cui necessita e a cui esso stesso dà vita, e se ciò pare pleonastico non appena lo si afferma, la relazione qui diventa invece fondativa, oggetto stesso della narrazione. La visione e la percezione che ne ricaviamo dalla lettura fa di questo romanzo un gesto artistico, opera completa, riuscita perché scaturita dalla soggettività di Galetta - soggettività che distrugge, trapassandolo, l'io piccino dell'autore in quanto uomo, di cui nel libro non c'è traccia - per cui è nello stile che si ravvede la qualità della scrittura, nonché, come vedremo, il senso stesso della pietà, che assume una fisionomia nuova, o rinnovata, comunque non riferita, non un modello comportamentale mediato o aprioristico.
Ponendo a fondamento dell'opera la necessità che il potere ha di stabilire relazioni, l'umanità viene riversata sulle pagine con tutti i suoi limiti, le sue speranze, le sue miserie e desideri. Nessuno esiste senza lo sguardo dell'altro, senza lo sguardo che persino le case hanno dei loro abitanti, anch'esse in attesa di vedere qualcosa muoversi nell'orizzonte degli eventi reso teso da una campagna elettorale. Nei rapporti tra i personaggi emerge tutta la loro fragilità e al contempo l'intelligenza emotiva, anche e soprattutto nelle espressioni di diffidenza. Sono descritti con una sensibilità decisamente fuori dal comune, non calda e non fredda e giammai tiepida, piuttosto accogliente o respingente come può esserlo uno sguardo obliquo. La pietà, del resto, che certo non è il primo sentimento che viene in mente quando si parla di potere, impone sempre, prima di tutto, una modificazione dello sguardo. Galetta è un osservatore. Esprime i timori minimi, i silenzi, le attese, i gesti infinitesimali - di più, i gesti in preparazione.
Altro ingranaggio che salta fra gli stereotipi: essendo la politica il campo dell'azione, i gesti in preparazione diventano subito terreno scivoloso perché potenzialmente attraggono e accumulano gli ammiccamenti al lettore, le promesse facilmente mantenibili, i problemi di cui si hanno pronte le soluzioni, le buone intenzioni, quasi sempre intenzioni dell'autore che nel romanzo borghese dà il peggio di sé perché chiama realtà ciò che è solo la sua personale e dunque inutile visione del bene e del male. Galetta non compie questo errore. Il suo è sì un romanzo borghese, con una struttura orizzontale, ma anomalo. Del romanzo borghese trattiene il realismo, minuziosamente utilizzato come descrivesse un plastico; realista perché racconta una collettività, ma è allo stesso tempo un romanzo simbolico. La comunità che racconta, la provincia, i cittadini potrebbero essere qualsiasi altri della nazione. Nelle movenze umane c'è un non detto continuo che diviene sempre più chiaro, che pesa quanto le cose manifeste, e anzi le lascia indietro, ed è il vero portato dell'opera.
Un'abilità tecnica che rende il suo stile preciso, senza sbavature, perciò tagliente, lasciando il racconto quale arte del mostrare, dunque evita commenti o didascalie. Una pazienza infinita per i dettagli senza però indugiarvi, e sempre mantenendo quel rapporto fra dettaglio e proporzione su cui poggia la bellezza classica di ogni opera artistica. Come tutte le opere d'arte degne di questo nome, che abbiano cioè un valore estetico, l'oggetto della narrazione deve occupare tutto lo spazio e il tempo dello stile, diventare la vera trama del testo, tessuto linguistico. L'attenzione meticolosa dello sguardo e quella pazienza che ho detto, che l'autore semina lungo tutto il testo è precisamente la pietà di cui è intrisa la vicenda, una speranza sofferta dai personaggi di vedere realizzati i cambiamenti utili alle loro vite, di cui la campagna politica dell'ambientazione non è che l'occasione.
Del romanzo borghese non ha quella fastidiosa volontà di etica a tutti i costi, se non perché, eventualmente, tramite l'uso del Noi quale soggetto grammaticale possa essere stato tentato di elevare la soggettività dell'individuo a soggettività di gruppo, che non funziona semplicemente perché non è lì per sua natura. Semmai, una simile operazione darebbe vita a un io di gruppo. Le soggettività che, come diceva Maurizio Grande, sono divinità senza io, restano di competenza di un oltre che giunge a noi solo attraverso gli individui liberi. Se il gioco, per così dire, voleva essere quello di rendere le varie comunità personaggi in sé stesse, non è riuscito. Chi più si è avvicinato a realizzare una mostruosità del genere sono stati i nazisti, e abbiamo visto com'è finita.
La bellezza di questo uso della prima persona plurale sta nell'esatto contrario: raccontare una comunità per come essa si sforza di pensare sé stessa, concederle di esprimersi per ciò che crede di essere per valutare se funziona, o fin dove funziona, e quanto gli individui che ne fanno parte accettino di esserne complici e con quale tensione avvertono il bisogno di sfilarsene. Quel Noi si direbbe che nasca dall'osservazione attenta che ho detto come punto di partenza per Galetta nel maneggiare la materia umana che ha scelto, e diventa, nel corso della narrazione, vettore di pietà perché ai codici prestabiliti, agli usi e ai costumi di gruppo, nei quali gli individui tentano di obliterare appunto le proprie soggettività, essendone spaventati, distribuisce su tutti una lingua migliore che altrimenti non avrebbero avuto, allargando in questo modo uno spazio maggiore dell'essere e del divenire.
Il romanzo borghese si compiace della rappresentazione, che quanto più è minuziosa e precisa tanto più diviene il suo punto di piacere. Galetta sembra usare la rappresentazione come il più classico dei cavalli di Troia, come palco teatrale nel quale far agitare degli imprevisti che disinnescano la rappresentazione, il gioco dei ruoli. Questo romanzo si presta a lasciar sperare per il futuro che Galetta abbia le capacità e la tempra di portarsi fin dove sono riusciti ad arrivare i grandi autori, appunto oltre la rappresentazione, oltre il piacere.
Oltre questo romanzo c'è solo il delirio, come un sancta sanctorum che sta alle spalle del trono su cui è posta la pietà; il sacro autentico delirio che incredibilmente alcuni critici ancora nel 2025 non sanno riconoscere e lo chiamano megalomania o eccesso di stile ed è invece la voce della soggettività, del dio, a cui auguro a Galetta di giungere perché vi si può accedere solo attraverso la stessa paziente capacità di osservare.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.