Venezia80: “El Conde”, il Pinochet-vampiro di Larraìn non morde

La commedia dark/horror che rilegge in chiave grottesca la storia del dittatore cileno Augusto Pinochet è noiosa e indigeribile, nonostante l'estetica ricercata e tantissime inquadrature perfette

Venezia80: “El Conde”, il Pinochet-vampiro di Larraìn non morde
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Quest’oggi in concorso al Festival di Venezia 2023, viene presentato al pubblico “El Conde”, la dark-commedy in salsa horror diretta dal regista Pablo Larrain, che la stampa ha invece visionato ieri sera. Il film sbarcherà su Netflix già a partire dal 15 settembre ma sarà difficile che arrivi in testa alla classifica dei più visti della piattaforma. “El Conde” racconta la storia di Augusto Pinochet, il dittatore cileno, in una maniera del tutto inedita, immaginandolo nei panni di un vampiro che, nato ai tempi della Rivoluzione Francese, all’età di 250 anni decide di rinunciare alla propria immortalità.

“Tony Manero”, “Post Mortem” e “No” sono i titoli in cui il regista cileno ha già dipinto la vita sotto la dittatura di Pinochet. Stavolta però si avvale del registro grottesco per analizzarla da un’angolazione inedita, di sicuro metaforica ma anche inconcludente. La narrazione è ridondante e sfocia in una sorta di fantapolitica con elemento soprannaturale che non diverte né fa riflettere. Nell’incipit vediamo un anziano Pinochet (Jaime Vaidell), che ama farsi chiamare Conte e vive in una villa in rovina, sita in una landa desolata, insieme alla moglie Lucia (Gloria Münchmeyer) e al fedele maggiordomo (Alfredo Castro). Siamo nel sud del Cile. Il Conte si nutre del sangue umano delle proprie vittime, ha preso parte a numerosi avvenimenti storici epocali fin quando ha deciso di fare carriera e farsi re, a modo suo, in Sud America. Qui, sposata una donna più scaltra di lui e con ancor meno scrupoli, ne segue i consigli e compie il colpo di stato che lo porta al potere nel 1973, esattamente cinquant’anni fa.

Ad un certo punto, quando la giustizia sembra incombere e i suoi malaffari rischiano di avere conseguenze personali, decide di fingersi morto. Ritiratosi dalla vita pubblica, va in crisi esistenziale quando inizia a reputare quanta gente sia ingrata nei suoi confronti: tutti i numerosi imprenditori di cui ha fatto la fortuna in quanto presidente corrotto si sono dimenticati di lui, nel suo vecchio palazzo presidenziale non c’è ancora un busto in suo onore e così via. Ha desiderio di morire davvero e così decide di eliminare il sangue dalla sua dieta per rinunciare alla vita eterna. Quando in città qualcuno inizia a rubare il cuore a malcapitati uccisi a caso, i figli si presentano a casa sua, un po’ insospettiti e un po’ per rendersi conto di dove è nascosta l’eredità prima che sia troppo tardi.

Da Pablo Larraìn, presenza fissa in concorso alla Mostra di Venezia, dopo i precedenti di “Jackie” con Natalie Portman, “Ema” e “Spencer” con Kristen Stewart, ci si aspettava molto più di questo che invece appare essere un passo falso. Quella che sulla carta sembrava poter essere una potente metafora politica supportata da elementi satirici e soprannaturali, nonché un’allegoria del male e la denuncia della brutale impunità di cui da sempre godono alcuni potenti come questo autocrate e assassino, è invece un tourbillon di scenette noiose e ripetitive. In elegante bianco e nero e con un gusto per l’inquadratura eccezionale, “El Conde”, non sviluppa granché il bizzarro espediente narrativo attraverso cui ricorda come sia stato succhiato il sangue a un intero paese. Sottolinea che il dittatore sia morto senza mai aver dovuto affrontare la giustizia, da libero e milionario, ma non c’è molto altro. Il film diventa presto un delirante spreco di spunti che finiscono con l’avvitarsi su se stessi.

Un nonsense sterile, che funziona solo quando sembra un film di

Wes Anderson, che però disconosce le caratteristiche chiave di Anderson essendo girato in bianco e nero e con venature horror. Chissà se come miniserie, questa l’idea iniziale, avrebbe funzionato di più.

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