Pechino -
Quando parte la musica dell’inno nazionale cinese si alzano tutti in piedi in religioso silenzio. Quando finisce, brindano con un bicchiere di champagne. Mi alzo in piedi anch’io, ma dopo mi accontento di una birra. Sotto la città è deserta, per come può esserlo una megalopoli di quindici milioni e passa d’abitanti, e fa una certa impressione che nell’arco di mezzo pomeriggio questa massa umana si sia come volatilizzata. Le strade vuote, il traffico inesistente, i negozi chiusi, camminavi lungo l’arteria plurichilometrica che porta a piazza Tienanmen e potevi dire, fatte le debite proporzioni e comparazioni con i giorni normali, che non c’era anima viva.
Sono al quinto piano di un grattacielo che ha per nome Twin Towers, il locale si chiama Lan, l’ha disegnato Philippe Stark, ha un’area di seimila metri quadri, può ospitare milleduecento persone, ci vanno i cinesi ricchi, quelli per i quali queste Olimpiadi sono una prova d’orgoglio e un elemento di riscossa. Sono mediamente giovani, fumano sigari, accendono i fuochi d’artificio quando il serpentone della squadra cinese irrompe su uno dei tanti schermi che costellano la sala dove è situato il lounge bar che ha un bancone lungo più di settanta metri, superiore persino a quello dello Shanghai Club di cui, negli anni Venti del Novecento, il commediografo inglese Noël Coward favoleggiava che poggiandovi sopra l’orecchio si potesse sentire il meridiano del mondo.
Dai cinesi poveri ero stato prima, negli hutong che sono subito dietro la Città Proibita. Hutong è un termine mongolo, vuol dire sentiero, ma in realtà sono vicoli che portano a cortili su cui si affacciano le abitazioni. È difficile che abbiano un bagno, se non in comune ed esterno, sono scomodi, umidi, ci abita ancora un quarto della città. La Cina delle Olimpiadi si è abbattuta su di loro come un rullo compressore, ma non li ha eliminati del tutto: hanno una loro bellezza, richiamano una tradizione, piacciono agli stranieri che li restaurano da capo a fondo e vanno a vivere lì pensando di essere cinesi.
Qualcuno degli abitanti ha portato la televisione fuori che sono ancora le cinque del pomeriggio: c’è un lungo cavo che esce da una porta e attraversa il cortile per poi finire in strada, un tavolino che le fa da sgabello, intorno si è radunata una piccola folla di una ventina di persone. Ci sono vecchi, che hanno il posto d’onore in prima fila, giovani con la canottiera arrotolata sopra l’ombelico, bambini bellissimi, come la bambina che allo Stadio Olimpico dal poetico nome di Nido d’Uccello più tardi canterà una canzone struggente che farà venire le lacrime ai ricchi clienti di Lan.
Sien Gui fa l’importatore di automobili, ha 27 anni, una faccia seria che contrasta con l’eccessivo entusiasmo alcolico di due degli ospiti, tedeschi, seduti al suo tavolo. Quando gli dico che sono italiano fa un sorriso rapito. «Ferrari» mi dice. «Siete un grande popolo». Non voglio deluderlo e gli rispondo di sì. La mia birra viene sostituita dal suo champagne e non gli dico di no. «In Europa un locale così non l’avete» mi dice dopo un po’. Annuisco. «Però l’ha disegnato un europeo» aggiungo. «Sì, ma solo a Pechino poteva trovare questo spazio e questa ricchezza».
La Cina è questa cosa qui, amichevole e altera, umile, ma tenace, nella quale il passaggio dall’ammirazione alla competizione è facile e quasi inavvertibile. Davanti al televisore degli hutong mi avevano offerto delle pesche, dolci, buonissimi, e un continuo sorridere nell’impossibilità di scambiare una parola che fosse per loro e per me comprensibile.
Le ragazze di Lan, chiamarle cameriere sarebbe fare loro un torto, sono tutte bellissime, indossano lunghi vestiti di seta nera attillati, parlano un inglese fluente. Quando la cerimonia olimpica è cominciata, una dopo l’altra hanno smesso di servire, si sono strette fianco a fianco e guardavano lo schermo come se lì stessero trasmettendo una cerimonia religiosa.
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