Con questo volume di William Carlos Williams appena uscito - A un discepolo solitario, Bompiani, pagg. 461, euro 24; a cura di Luigi Sampietro, traduzione di Damiano Abeni), il lettore italiano ha l'occasione per accostarsi a uno dei grandi poeti americani del secolo scorso, la cui fama è sempre stata occultata, almeno in Europa, da Pound e Eliot, fabbri e maestri universalmente riconosciuti.
Williams nasce da padre inglese e madre di origine caraibica a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey, nel 1883, e lì morirà nel 1963, dopo essersi diviso equamente tra la professione di medico e la pratica costante della poesia. Anche se compì i suoi studi in Pennsylvania e a New York e si specializzò a Lipsia in ostetricia (nella sua carriera avrebbe fatto nascere 2000 bambini), non trascurando un lungo tour europeo che toccò anche Roma, una volta tornato a Rutherford Williams, con la moglie Florence non se ne mosse più. Della sua città radicata nella provincia americana fece il proprio universo che trasfuse nel poema dalla portata epica in cinque volumi intitolato Paterson, l'apice di un'opera che consta anche di romanzi, testi teatrali e saggi. L'influenza di Pound non andò oltre il fatto che Williams fu considerato un «imagista», dal movimento detto Imagismo, uno dei tanti che fiorirono nella temperie del modernismo. Ma Williams si sentì lontano dal «correlativo oggettivo» di Eliot, dalla cristallizzazione mitica e intellettuale della sua poesia, e addirittura La terra desolata gli apparve come una grande catastrofe, certificazione di una crisi senza uscita: più europea che americana. Il mondo di Williams vuole essere la quintessenza del Nuovo Continente. Le sue parole che possiedono «la forma del movimento» piuttosto che alla vecchia metrica tradizionale guardano al sound del jazz, così meticcio e così americano. Leggendo a voce alta certi suoi testi, specialmente quelli dai versi brevissimi, a volta di un solo termine, o dai versi che si allargano e dilagano senza ordine strofico sulla pagina, ho avuto un'impressione simile a quello che ho ascoltando un sax o uno xilofono che suonano brani di jazz. Williams non ha l'empito di Whitman, da cui rimane molto lontano per potenza evocativa, non ha l'ossessione carnale e visionaria di D.H. Lawrence. A quest'ultimo è vicino nelle descrizioni palpitanti di fiori, bestie, alberi, come in Il toro, L'elefante marino, Giovane platano, ma negando che siano mai esistiti satiri e menadi e dèi dalla testa di aquila, gli stessi di cui nelle sue tarde poesie l'autore dell'Amante di Lady Chatterley vide pullulare ogni cespuglio, ogni foglia e ogni ramo. Ci sono poesie d'amore in Williams: il peso dell'amore lo fa lievitare «al punto che la testa/urta il cielo», e a volte trova la via per immagini erotiche ma di composta grazie come nel Ritratto di signora che comincia «Le tue cosce sono meli/ i cui boccioli sfiorano il cielo». Più frequenti le poesie che ritraggono la vita quotidiana rifiutando ogni estetizzazione, e anzi andando al nocciolo duro, oggettivo della realtà riproducendola a tratti persino con effetti iperrealistici, come nel caso dei versi che descrivono una carriola rossa invetriata dall'acqua piovana, ferma vicino a bianche galline, o con effetti satirici come nella poesia che comincia «Della morte/il barbiere/il barbiere/ mi ha parlato», che in forza di stile tramuta chiacchiere tipiche di una bottega di barbiere in riflessioni ritmiche e ironiche sul tempo, il sonno, la morte. A Williams bastano due tocchi per farci vedere il volto della vecchia itterica dagli «occhi di zafferano» che ripete: «Non posso morire». E due tocchi per mostrarci in Nantucket un interno con i suoi vasi di fiori, il vassoio di vetro, la brocca di vetro, il bicchiere capovolto e, vicino, una chiave, e più in là un letto bianco, immacolato. Magistrale la descrizione del foglio di carta da imballaggio dalle dimensioni di un uomo che rotola sull'asfalto e, investito da un'auto, si appiattisce e riprende a rotolare, e in un Ritratto proletario (che certo non gli attirò le simpatie dei maccartisti già sospettosi di lui) l'immagine quasi cinematografica, asciutta, della «giovanottona in grembiule» con una scarpa in mano in cui fruga cercando il chiodo che la fa male. Nelle poesie più tarde, affiora accorato e potente il tema della vecchiaia, come in La discesa e in Asfodelo. Quest'ultima a me sembra la poesia più coinvolgente del libro. Il pensiero dell'autore, che in un altro testo, in dialogo con René Char, prende coscienza della bellezza, qui si anima di simboli, e cantando alla sua compagna l'asfodelo, fiore degli Inferi, si lancia in un sommesso ma vorticoso viaggio tra memoria, immagini grandiose del mare, reminiscenze dell'Iliade, del catalogo omerico delle navi, di Elena, sin quando i fiori riportano lui e l'amata alla giovinezza e ricongiungono l'amore con la morte, ma per farlo vivere ancora.
Ai poeti americani più giovani, come quelli della San Francisco Renaissance e come Allen Ginsberg, anche lui originario del New Jersey, William Carlos Willians lascerà in eredità un verso libero e jazzy, una pratica non intellettualistica della poesia e il desiderio di vederla dovunque, in qualunque dimensione del reale e del linguaggio per mantenerli palpitanti e vivi, con la consapevolezza che, come scrisse Ginsberg, «il peso/il peso del mondo/ è amore».
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