Il conformismo del "dissenso"

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Il dissenso è diventato conformista e illiberale. Oggi si tappa la bocca al ministro Eugenia Roccella in nome del dissenso, e ciò avviene col sostanziale silenzio-assenso di direttore e organizzatori del Salone del libro, nonché tra gli applausi generali dei media. Ieri si tappava la bocca, in nome del dissenso, a Giampaolo Pansa, inseguito in tutta Italia da affiliati ad associazioni e centri sociali affinché non potesse presentare i suoi libri «revisionisti». Nessuno si scandalizzava, grandi giornali e televisioni se ne infischiavano, quando non manifestavano un aperto consenso al dissenso. In nome del dissenso, studenti a favore di telecamera imbrattano opere d'arte per sensibilizzarci sul tema del cambiamento climatico. A parte qualche sindaco che sbrocca, i ragazzi sono «compresi» se non apertamente sostenuti dai soliti media e agiscono in un clima di simpatia sui social. In nome del dissenso, legioni di comici e giornalisti si scagliano contro il governo, e in cambio ottengono il consenso degli addetti ai lavori, l'applauso del pubblico e ottime recensioni qualora scrivessero un libro e lo fanno quasi sempre. I dissidenti immaginari confermano i pregiudizi del pubblico. Gli eterni perseguitati da nessuno fingono di affrontare il plotone d'esecuzione ma sono soltanto i camerieri del potere mediatico e culturale, fortemente sbilanciato a sinistra. Loro dissentono. Ma soprattutto incassano. Il potere remunera sempre i suoi servitori. «Dissenso» però è una parola che ha una storia. I dissidenti, per eccellenza, nel XX secolo furono gli oppositori del regime comunista. Gente a cui toccava: il manicomio (da sani), la tortura, dieci anni di Gulag, l'esilio e la fucilazione. I dissidenti vivevano nel terrore. L'Nkvd poi Kgb poteva tutto e loro non potevano niente se non testimoniare l'esistenza di un mondo più libero e giusto. Nel 1977, Carlo Ripa di Meana organizzò la Biennale del dissenso, a Venezia, invitando gli artisti dissidenti. Sapete chi si adoperò per farla fallire? Giorgio Napolitano, su ordine di Enrico Berlinguer, ecco come il comunismo, in tutta Europa, trattava il dissenso: con la censura. Solgenitsyn fu esiliato. A Pasternak impedirono di ritirare il Nobel. Osip Mandel'stam morì in un Gulag. La Cvetaeva, alla quale non rimaneva nulla, si impiccò. Bukovskij fu deportato. Sinjavskij si fece il Gulag seguito dall'esilio. Babel fu messo davanti al plotone d'esecuzione senza tanti complimenti. Salamov tornò dal Gulag praticamente distrutto. Insomma, una intera generazione di scrittori dissidenti fu spazzata via dalla repressione. Di fronte a Vita e destino, gli agenti della polizia segreta, dopo aver fatto irruzione nella casa dell'autore, Vasilij Grossman, distrussero persino i nastri usati delle macchine per scrivere. Grossman morì con la certezza di aver perduto il suo capolavoro. Invece Sacharov ne aveva realizzato due copie ed era riuscito a inviarle a Losanna. I dissidenti esprimevano, con sfumature diverse, una netta opposizione all'idea che lo Stato fosse tutto e che l'individuo non fosse niente. Sapevano che c'era un conto salato da pagare, e che non sarebbero riusciti ad evitare la punizione. A loro, la stampa non batteva le mani.

Erano trattati da traditori del popolo, da folli, da criminali. Non avevano una parte politica che li coccolasse, erano soli, completamente soli. Non potevano cercare consenso con strumenti come i social. Erano dissidenti. Veri.

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