Contro l'estetica da poster ci vuole una buona dose di melanconia

Un accademico americano, Eric G. Wilson, ha scritto un saggio dal titolo "Contro la felicità". Da Keats a Melville, tutti i libri, le citazioni e gli spunti intellettuali per non rassegnarsi a una serenità stereotipata

Contro l'estetica da poster ci vuole una buona dose di melanconia

Sembra di vivere in un mondo di soddisfazione perenne una sorta di «Brave new world» della felicità. La percezione di essere in un mondo ossessionato dalla felicità è sempre più forte. La nostra sembra essere una realtà finalmente mondata dalle increspature. Una superficie perfettamente liscia dove l'autentico e l'imperfetto sono banditi. Ecco perché i continui richiami di sociologi e antropologi al cosiddetto fenomeno del «non-luogo». Posti cioè che si assomigliano un po' dovunque. Progettati per essere funzionali ma soprattutto rassicuranti. Come i grandi centri commerciali, i terminal degli aeroporti. Anche le aree di servizio delle autostrade oggi si presentano come delle oasi universali piuttosto che come stazioni di posta intrise del colore locale. Il sociologo francese Marc Augé ha fatto la sua fortuna con il termine «non-luogo» ,e per superare l'impasse che questo «topos» rappresenta per il nostro sentire comune, ha iniziato la sua battaglia ideologica in favore della riappropriazione degli spazi e di un più autentico rapporto con la natura grazie al suo canto d'amore in favore della bicicletta («Il bello della bicicletta», Bollati Boringhieri). Se Augé mette in campo le due ruote nella sua personale lotta contro l'indebolimento della diversità culturale, Eric G. Wilson, studioso di letteratura inglese, si arma di tutto la sua cultura umanistica per affrontare di petto un altro pericoloso virus che sta anestetizzando il sentire comune. Il cosiddetto demone dei cuorcontenti che, secondo Wilson, sta lentamente ma inesorabilmente inaridendo la nostra sensibilità. Nel suo ultimo è più famoso libro, appena uscito anche in Italia grazie a Guanda con il titolo «Contro la felicità» (che porta come sottotitolo tutt'altro che scontato «elogio della melanconia») Wilson difende questo fruttuoso stato d'animo così controcorrente oggi, eppur così fecondo.
La scuola accademica anglosassone ha sempre dimostrato come sia possibile evitare di perdersi nei meandri della teoria e riportare i messaggi e i testi letterari a un pedissequo confronto con la realtà. Un maestro in questo senso lo è da sempre Harold Bloom. E Wilson sembra aver fatto tesoro della lezione del grande critico statunitense. Rispolvera tutti i titoli della sua ideale biblioteca filosofico-letteraria per tirar fuori esempi che dimostrino (carta alla mano) che di felicità si può anche inaridire, mentre la melanconia, quella struggente inclinazione ad accettare la finitudine della bellezza, può soltanto innescare vivaci corticircuiti, tali da garantire un perenne stato di creatività e di capacità di ammirazione di tutto quanto ci circondi. Anche di ciò che all'apparenza non risponde a canoni omologati di bellezza e felicità. Il saggio di Wilson si legge, quindi, come un vademecum per capire quanto un atteggiamento malinconico favorisca un rapporto più diretto e autentico con la realtà e quanto la felicità dei cuorcontenti alla lunga rappresenti un veleno mortale. E prima di abbandonarsi alle dotte citazioni si affida alla saggezza che solo l'esperienza diretta può fornire per confezionare un breviario a uso e consumo non solo di chi non smette mai di avere voglia di perdersi nei mille rimandi bibliografici che un saggio letterario può fornire, ma anche di chi molto più umilmente si affida alla lettura per capire meglio il mondo e come muoversi nel mondo. All'indomani dello scoppiare della grande crisi del settembre scorso quando il mercato finanziario internazionale ha gettato nello sconforto milioni di persone in tutto il mondo, un istituto di ricerca statunitense (Pew Research Center) ha svolto un sondaggio sul grado di felicità degli americani. E - a sorpresa - è risultato che l'85% degli americani si considera felice o meglio fa di tutto per sembrarlo. Questi dati ovviamente hanno l'effetto paradossale di allarmare Wilson che vede in questo risultato gli effetti del dilagare di una nuova branca della psicologia: la cosiddetta psicologia positiva. Quel ramo editoriale, cioè, che si è conquistato decine di metri quadri nelle librerie di tutto il mondo con la sua manualistica spicciola fatta di banali decaloghi su come affrontare e superare ogni situazione difficile (ma già un grande psicologo infantile come Bruno Bettelheim ci aveva avvertito del pericolo insito in questa manualistica: il caso singolo non può essere risolto da una norma generale perché le implicazioni soggettive sono sempre troppo diverse e troppo importanti). E tutto questo darsi da fare per eliminare i problemi, il dolore, il rischio e la melanconia dalla faccia della terra fa inorridire lo studioso di letteratura inglese che con queste parole mostra il suo disagio: «Ambire unicamente alla felicità in un mondo innegabilmente tragico vuol dire diventare inautentici. Una società che si sforza di eliminare la melanconia dal sistema mi fa paura». Ovviamente il bersaglio di Wilson non è quella serenità che si conquista soltanto con una lunga frequentazione dell'incertezza e del dolore. Né tanto meno Wilson intende offrire una visione romantica della depressione come tante generazioni di ingenui lettori hanno fatto delle pagine più impetuose della letteratura romantica e di quella «maledetta».
Wilson al contrario offre una netta distinzione tra depressione e melanconia: «Entrambe si possono definire forme di tristezza cronica che inducono un disagio permanente rispetto allo stato delle cose: la sensazione perenne che il mondo così com'è non vada granché bene. Di fronte a questo disagio la depressione provoca apatia, la melanconia invece genera un sentimento profondo, una turbolenza del cuore che sfocia in un'attiva messa in discussione dello status quo, un'aspirazione perpetua a creare nuovi modi di essere e di vedere».
E l'uomo di cultura sfoggia tutto il suo sapere per fornire exempla adeguati: da Keats a Coleridge, passando per il nostro Calvino e Melville. Senza disdegnare rimandi alla cultura più propriamente pop (come le canzoni di Bruce Springsteen e le musiche di Joni Mitchell, strettamente legate al vissuto dei rispettivi autori). Con un occhio sempre fisso alla tradizione americana. Quella, per intenderci, che complice le teorie di Benjamin Franklin, ha inserito la ricerca della felicità nella costituzione americana. Già Ralph Waldo Emerson (altro campione del pensiero statunitense) aveva sollevato dubbi importanti circa la validità di questo dettato. E nel 1951 uno psicologo di fama, Alan Watts, nel suo «La saggezza del dubbio» avvertiva che sperare nella felicità sicura vuol dire cadere in una tremenda insicurezza, in un sentimento di forte scissione nei confronti della vita reale.
La più grande tragedia - chiosa lo stesso Wilson, che insegna letterature comparate alla Wake Forest University di Salem nel North Carolina, - è «vivere senza tragedia. Aggrapparsi alla felicità vuol dire odiare la vita. Amare la tranquillità è odiare l'individualità. Abbracciare la melanconia ravviva il cuore». In fondo aveva ragione anche il vecchio Leone Tolstoj quando sentenziava che tutte le famiglie felici si somigliano e solo quelle infelici lo sono sempre in modo «originale». La bontà e la felicità sono degli standard (soprattutto oggi nella nostra società post-industriale dove i produttori di beni di consumo modellano al ribasso i gusti dei potenziali clienti). E contro quella che chiama l'«estetica del poster» (con milioni di persone che si muovono in giro per il mondo solo per ritrovare gli esatti paesaggi visti in fotografia) che smussa gli angoli della felicità e della sensibilità, Wilson propone come ricetta l'ironia melanconica offerta dai campioni della letteratura.

«Ho la sensazione - commenta Wilson - che la maggior parte di noi sia stata turlupinata dalla mania per la felicità. Siamo indotti a credere che viviamo un'esistenza autentica, fatta di vivide realtà e cuori appassionati, quando in realtà ci limitiamo a comportarci come automi in modo prevedibile e artificiale».

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