IL CORAGGIO DI SCEGLIERE

Molti italiani hanno già votato, hanno consacrato la domenica all’obbligo civile della scelta. Sono stati più di quanti si sarebbe potuto pensare e di quanti, a sinistra, qualcuno avrebbe sperato. Oltre il 65% ieri sera aveva espresso la sua volontà: segno dell’importanza della posta in palio. Rispetto e ammiro gli elettori, comunque abbiano votato. Amo la mia terra, ho una certa idea dell’Italia, della sua contagiosa capacità espansiva che non è basata sulla forza delle armi – non s’usa più, per fortuna – ma sulla tenacia, sulla sapienza, sull’inventiva, sul gusto della sua gente. Credo nel futuro e nel passato di questo Paese di cui troppi si affrettano a parlar male, come se l’autodenigrazione fosse una prova di maturità e non un sintomo di meschinità civile. Credo anche di conoscere i difetti di quest’Italia, ma per quanto mi eserciti al cinismo e al disincanto, non riesco ancora a capire come una terra che occupa così poco spazio sulla carta geografica abbia potuto segnare positivamente e fruttuosamente il pensiero, la cultura, il modo di vivere dell’Occidente morale di cui siamo figli partecipi.
Mi tengo stretto all’Italia e proprio per questo voto per il centrodestra e ho voglia di dirlo e lo dico nel momento in cui forse qualcuno tentenna, indugia, si ritrae, intimidito dalla pressione propagandistica di un’altra parte d’Italia, rispettabile sempre perché è il completamento della nostra identità, ma piagnona e masochista.
Scelgo il centrodestra perché credo nel suo progetto di cambiamento del Paese, progetto che non è un’astratta esercitazione di riformismo insensato, ma la speranza di introdurre nella nostra esperienza istituzionale quella rivoluzione liberale possibile che il nostro passato non ci ha consentito di sviluppare.
L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era corporativa e dirigista e il regime democratico repubblicano ci ha garantito la libertà, ci ha consentito la conquista del benessere dopo una lunga stagione di ristrettezze, ma non ha completato il processo di liberalizzazione degli istituti e delle strutture. Siamo ancora, in parte, un Paese in cui le incrostazioni del passato cozzano contro le esigenze poste dalle sfide del presente e del futuro. L’urgenza dello svecchiamento minaccia interessi costituiti e anchilosati di corporazioni, mini-ceti protetti, politiche rendite di posizione. Il governo di centrodestra ha avviato nel 2001 il processo di liberalizzazione e di svecchiamento. Ha varato riforme importanti (si pensi che la pubblica istruzione dopo la riforma Gentile del 1923 aveva conosciuto soltanto risibili e disorganici ritocchi). Non ha fatto tutto ciò che era necessario fare, non è possibile in cinque anni rimediare a decenni, e forse secoli, di illiberalità operante e protettiva. Oltre tutto, il centrodestra ha operato nella congiuntura economica più sfavorevole per l’Europa, mentre le prefiche dell’opposizione si beavano delle nostre difficoltà.
Però il progetto di cambiamento va sostenuto, lo sforzo di liberalizzazione va incoraggiato. Anche perché l’alternativa al centrodestra è il puro e semplice salto all’indietro. Comunisti riverniciati e democristiani di sinistra, la riproposizione pura e semplice di quel compromesso storico che gli italiani rifiutarono trent’anni fa.

Se è consentito un ricordo personale, 32 anni fa ero con quel gruppo di giornalisti che diedero vita a il Giornale proprio per opporsi al compromesso storico, al cedimento nei confronti del Pci, che allora aveva ancora il conforto del Muro e della grande madre sovietica.
Sono passati tanti anni, tocca a tutti prestare testimonianza, perché le cose cambiano, ma non troppo.

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