Whipped Peter, ovvero «Peter il fustigato», è rimasto immortalato di schiena mostrando la geografia delle sue sofferenze. Nero e ridotto in schiavitù, porta i segni delle frustate, aspetto evidente di patimenti. Discriminazioni. Razzismo. E detto oggi, nell'epoca del «Black lives matter», non ha una valenza secondaria, tanto che sembra coniugarsi con il bicromatismo prevalente di un film difficile da dimenticare e profondamente legato a un filone consolidato.
La strada di Peter verso la libertà è lastricata da fughe e inseguimenti che danno all'opera un risvolto da sopravvissuti e sopravviventi in uno stile che ricorda Revenant pur senza esserlo. Peter rincorre i suoi diritti. Rivedere la famiglia. Vivere come un uomo libero. E qui il pensiero non può non andare a 12 anni schiavo che all'America nel 2014 piacque così tanto da premiarlo con tre Oscar. Un traguardo non poi così nascosto per quest'opera che ha come protagonista Will Smith, del quale si ricordano i precedenti non proprio lusinghieri dei cazzotti di un anno fa al presentatore.
L'occasione per rifarsi una verginità comportamentale arriva ora con un film che parla di diritti e di parità nella stessa misura in cui tocca l'irrazionalità della guerra - ogni guerra - e dei soprusi di cui spesso i più deboli finiscono per essere vittime. Temi importanti ma forse un tantinello consolidati che alle nostre latitudini impallidiscono perché tra i difetti italioti non c'è il razzismo spinto all'eccesso e deleterio a stelle e strisce.
Colpisce invece la limpida bellezza di immagini per lo più in bianco e nero - meraviglia per gli occhi e sottolineatura di uno scontro epocale visto che siamo nella Louisiana di Lincoln - in cui il colore è debole e la sfumatura seppiata strizza l'occhio alle vecchie foto di un tempo che fu. Quelle di Whipped Peter, da cui il regista è partito per raccontare una storia che non smette di essere degna di ricordo. Come ogni forma di anelito alla libertà e al rispetto verso l'uomo in ogni declinazione.
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