«I Wandjina sono esseri immateriali, spiriti delle nuvole e della pioggia che nel corso del Tempo del sogno hanno creato paesaggi e uomini. Prima di morire cercano rifugio in un riparo o in una caverna, dipingono la propria immagine su una parete e scompaiono in una pozza d'acqua. Spesso queste pitture sono restaurate dagli aborigeni al fine di rigenerarne la forza vitale». È in una didascalia, verso la metà di L'arte della preistoria (Einaudi), questo librone immenso, per la dimensione e la quantità di informazioni e, soprattutto, per la bellezza delle immagini, che si trova una chiave di volta fra decine e decine di raffigurazioni che ci parlano dai millenni, o meglio da «cinquecento secoli di arte rupestre», come scrive Carole Frizt, che ha curato il testo insieme a numerosi studiosi di tutto il mondo. Cinquecento secoli di mani, bufali, cavalli, figure femminili dalle forme generose, cacciatori, uri, leoni, sciamani, cavalieri, giganti... e maschere. Quelle che i Wandjina dipingevano sulle pareti dell'antica Australia, come a Isdell George, nel Kimberley. Oceano, rocce rosse, deserto.
L'arte è opera degli dèi, ci dicono quelle maschere, quelle mani in negativo, quegli emù e quei Genyornis newtoni stilizzati, uccelli simili agli struzzi, ma estinti da almeno 30mila anni. È il loro segno e il loro sigillo: è ciò che le divinità ci lasciano prima di scomparire ed è, anche, ciò attraverso cui possiamo ritrovarle ed entrare in contatto con loro, come gli aborigeni fanno tuttora, custodendo e conservando questi dipinti, nelle zone dove è loro consentito. L'arte è divina, ed è memoria: a spasso nell'Arte della preistoria possiamo spingerci fino a trentamila, cinquantamila, perfino settantamila anni fa. Nelle pietre, che sono tutt'altro che mute, è scritta la nostra storia ed è scritta, anche, la storia divina: fuse insieme, natura e cultura, umanità e paesaggio, immagine e materia, cielo e terra. Gli dèi creano il mondo e poi creano le proprie raffigurazioni, dipingendole nelle grotte, e ci dicono che cosa fare per tentare di imitarli: addentrarci nell'antro oscuro e provare l'ebbrezza del demiurgo. Che a volte è sciamano, a volte sacerdote, altre cacciatore feroce, altre ancora capotribù. In ogni caso, l'arte tiene insieme la società, una società ancora arcaica ma che vive di una sua coesione, di ruoli, di valori, di visioni del mondo e, persino, di interpretazioni del cielo. Cosmogonia e mitologia si intrecciano con realismo e astrazione, come gli animali si mescolano agli umani. L'uomo è diventato Sapiens davvero.
La caverna (Platone ci aveva avvertito) non è un elemento da sottovalutare. «Nella storia dell'umanità, l'arte paleolitica si distingue per una particolarità: l'attrazione per le grotte profonde. In nessun'altra epoca, almeno fino alle attuali attività speleologiche, gli uomini si sono avventurati tanto lontano nel sottosuolo». Solo che nel Paleolitico non c'erano imbracature, Gps, ossigeno e tute speciali... Si può pensare che questa sia una ulteriore prova dell'origine divina dell'arte. Del resto, intellettuali e scienziati europei rimasero scettici a lungo sull'esistenza dell'arte nel Paleolitico. Quando fu scoperta la grotta di Altamira (la prima a essere esplorata, nel 1879) si stentò ad attribuirne i dipinti all'epoca preistorica, nonostante le prove portate dagli archeologi, perché non si credeva che dei «barbari» potessero creare opere così meravigliose. E si capisce anche come, viceversa, l'arte rupestre sia una delle maggiori fonti di ispirazione per gli artisti dal Novecento in poi. Specialmente quella africana: ben quattro regioni dell'Africa australe ospitano siti straordinari, Patrimonio dell'umanità (il Parco Maloti-Drakensberg in Sudafrica e Lesotho, i Monti Matobo in Zimbabwe, Twyfelfontein in Namibia e Tsodilo in Botswana) e proprio nel Sud del continente sono avvenute grandi scoperte sulle origini del pensiero simbolico.
Ora, quella didascalia citata all'inizio, può ricordare un po' il post scriptum di Kurtz alla fine di Cuore di tenebra, quando Conrad ribalta la storia rivelandone il senso: perché L'arte della preistoria è un volume rigorosissimo, che lascia ben poco spazio alla poesia e alla speculazione, per concentrarsi soprattutto sulla mole impressionante di informazioni raccolte dagli archeologi, dal Messico all'Australia, dal Texas agli Urali, dal Sahara alla Spagna. E queste informazioni spesso smentiscono convinzioni consolidate, come avviene con la scoperta della grotta di Chauvet-Pont d'Arc, nell'Ardèche, nel 1994, le cui pitture risalgono a 32000-31000 anni fa: la pubblicazione di queste datazioni al radiocarbonio desta subito «grande scalpore: l'arte più antica fino ad allora conosciuta non rispondeva affatto ai presunti canoni dell'arte primitiva». Il libro poi ci racconta scoperte recenti, spiega dettagli tecnici e, soprattutto, ci porta a conoscere l'arte rupestre attraverso i suoi «centri», dall'Europa al Gobustan (in Azerbaigian), dall'Asia delle steppe all'India, dalla Cina all'Australia, dall'Africa australe al Sahara, fino alle Americhe.
In questo giro del mondo, smettiamo di correre e ammiriamo. Come nella nota, o nel post scriptum, c'è altro. Succede come in una delle Illuminazioni di Rimbaud: «Nel bosco c'è un uccello, il suo canto vi ferma e vi fa arrossire». Questo canto è dipinto sulla pietra, o inciso in essa, a volte in dimensioni cubitali, come nel caso del gigante di Atacama, 85 metri di uomo mascherato scolpito nel deserto del Cile. Nulla è casuale: è impressionante la precisione con cui queste opere venivano create, come dimostra il sito di Lower Pecos, in Texas (2700 a.C.- 600 d.C.), in cui le immagini si richiamano da una pietra all'altra e perfino la stesura dei colori segue un ordine preciso. Non solo. Esse ricordano le mitologie degli Aztechi e degli Huicholes del Messico: «Lo stile Pecos svolgeva la stessa funzione dei codici pittorici precolombiani: quella di comunicare, mediante un repertorio grafico molto specifico, concetti cosmogonici e mitologici complessi». Qui, sulle pareti a strapiombo che dividono il Messico dagli Stati Uniti, sono dipinte figure di uomini che paiono sculture di Giacometti, o clown di un circo della Belle-Époque. Il colore è il rosso, a volte intervallato al nero. Come nella maestosa Cueva de las Manos (10000-9000 anni fa), in Argentina, unica per la quantità e la varietà delle impronte di mani negative. Ma ci sono anche le policromie del Corno d'Africa, che ci proietta in avanti di qualche millennio: a Laas Geel, la Fonte dei cammelli, nel Somaliland, ventitré ripari rocciosi sono decorati da pitture stupefacenti di umani e animali, soprattutto vacche. Al realismo delle rappresentazioni si alternano le stilizzazioni, i simboli, il ruolo rituale. Ancora oggi, in India, nel Madhya Pradesh, dove si trovano gli spettacolari ripari di Bhimbetka, alcune popolazioni locali ritengono sacre le pitture rupestri, le rendono teatro dei loro riti e attribuiscono a esse dei poteri.
I primi artisti non erano solo speleologi senza paura: erano anche scalatori e navigatori, che lungo i fiumi hanno dipinto narrazioni sulle pareti scoscese. Come in Cina, a Huashan, nel Guangxi, dove lungo lo Zuojiang si possono ammirare oltre quattromila rappresentazioni per duecento chilometri; o in Brasile, lungo il Rio delle Amazzoni, dove le pitture percorrono il corso del fiume trasformando la natura in una trama; e a White Shaman, caverna sul fiume Pecos, in Texas, sulle cui pareti scorre una narrazione del ciclo dei giorni, delle stagioni e dell'inizio e della fine dei tempi.
Gli esemplari più antichi di arte realizzata dall'uomo pare risalgano a 80-75000 anni fa: conchiglie perforate, scoperte nel Maghreb, e certi blocchi di ocra incisi ritrovati nella grotta di Blombos, sulla costa sudafricana (dove l'ocra si utilizzava già centomila anni fa), insieme a gusci di uova di struzzo perforati come ornamento. Per un'immagine figurativa, invece, bisogna aspettare 31300 anni fa e le lastre di pietra ritrovate nella grotta Apollo 11, in Namibia: su una di esse, spezzata, c'è dipinto un essere metà animale e metà uomo. Anche l'arte rupestre più antica risale a 30mila anni fa. Aristotele diceva che la filosofia nasce dalla meraviglia e, beh, nell'Arte della preistoria di meraviglie ne sono racchiuse moltissime.
La prima domanda che sorge da esse è: perché, cinquecento secoli dopo, queste mani e questi animali e queste figure stilizzate continuano a parlarci? E che cosa dicono di noi? Di certo esse sono una forma di linguaggio, anteriore in molti casi alla scrittura stessa: le immense teste stilizzate nel deserto dell'Australia occidentale, o gli elefanti e i rinoceronti incisi fra le sabbie libiche del Messak o gli enormi pilastri di Nawarla Gabarnmang, in Australia, ci raccontano di quando non ci siamo più accontentati di sopravvivere, come specie in mezzo alle altre specie, e siamo diventati qualcos'altro. Noi, che ci guardiamo indietro e ritroviamo, millenni dopo, un'altra commovente traccia lasciata dagli dèi.
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