Così a Beslan morì l'innocenza di una Russia incapace di cambiare

I terroristi ceceni compirono l'indicibile. La risposta non fu giustizia ma dittatura

Così a Beslan morì l'innocenza di una Russia incapace di cambiare

Il primo settembre del 2004, a Beslan nell'Ossezia del Nord è il primo giorno di scuola, quello che in tutta la Federazione russa è conosciuto come la «giornata della conoscenza». Beslan non è una città grande ma il suo istituto scolastico numero 1 è conosciuto in tutta la Repubblica come una scuola di qualità, si fa la fila per andarci. Infatti, per l'apertura, rigurgita di bambini e ragazzini festanti che si sono accalcati all'ingresso, in via Comintern e dintorni. Mentre la preside, Lidija Calieva, si aggira tra gli studenti e i professori - quell'estate ha fatto miracoli per rimettere in sesto l'edificio coi pochi rubli disponibili - all'improvviso risuonano gli spari. All'improvviso fa il suo ingresso un commando di terroristi ceceni che spara, urla. I pochi agenti presenti in zona vengono travolti, anche alcuni civili che provano a reagire (avere un'arma in Ossezia del Nord non è considerato particolarmente strano).

Nel giro di pochissimo tempo circa mille e duecento persone vengono prese in ostaggio. Mentre la città precipita nel caos. Insegnanti, bambini e genitori sono costretti a radunarsi nella palestra mentre attorno a loro vengono piazzati ordigni esplosivi rudimentali, ma terribilmente letali. Parte degli ostaggi vengono allineati davanti alle finestre per impedire il fuoco di eventuali cecchini della polizia. Vetri della scuola vengono frantumati per impedire qualsiasi intervento con il gas. I terroristi sono memori dalla tecnica usata dalle forze speciali russe al teatro moscovita Dubrovka.

Precauzioni per altro inutili, l'Ossezia non è Mosca e le forze cittadine di Polizia impiegano 40 minuti solo per rintracciare l'addetto che ha le chiavi dell'armeria. Sono più minacciosi i cittadini di Beslan che iniziano a radunarsi armati e disperati attorno alla scuola.

Inizia così uno dei più sanguinosi sequestri della storia contemporanea, non solo russa, anche perché tra gli ostaggi ci sono soprattutto bambini, persino neonati. Per ore l'unica reazione delle autorità contro i terroristi ceceni sarà soltanto quella di sottostimare, volutamente, in tutti i telegiornali il numero degli ostaggi catturati. Almeno sino al tragico epilogo dell'ingresso, alquanto scomposto, delle forze speciali dopo tre giorni di assedio. Un bagno di sangue.

A vent'anni di distanza, per avere un quadro drammaticamente vivido di quegli eventi niente è più efficace del saggio, in gran parte basato sulle interviste ai superstiti, di Erika Fatland appena pubblicato da Marsilio: La città degli angeli. Racconto da Beslan (pagg. 254, euro 18, traduzione di Francesco Peri).

Non aspettatevi una narrazione lineare di quell'inferno, dove i prigionieri vennero lasciati senz'acqua e senza cibo dai terroristi sino all'intervento delle teste di cuoio russe: i superstiti, devastati, non sono mai riusciti a cavarne una narrazione univoca e chiara. Anche le versioni ufficiali hanno sempre continuato a far acqua da tutte le parti. L'unica certezza, a posteriori, è quella sul numero delle vittime. Trecentotrentaquattro morti, tra cui centottantasei bambini. Non si è mai arrivati ad un conto preciso dei terroristi presenti. Secondo le fonti ufficiali erano trentadue, la maggior parte uccisi e uno catturato. Ma secondo molti degli ostaggi erano almeno settanta.

Ma Erika Fatland vi fornisce qualcosa di più di una narrazione meramente fattuale. Attraverso le sue interviste, e le sue peregrinazioni in quei territori, racconta nel dettaglio come si sia potuto sviluppare il clima di odio etnico religioso che ha portato alle guerre in Cecenia e alla strage di Beslan che, di quei conflitti, è soltanto una delle mostruose conseguenze.

Le testimonianze che l'antropologa ha raccolto mettono il lettore occidentale davanti ad un pezzo di Russia che stentiamo ad immaginare. Ci sono le madri distrutte che si recano ogni giorno alla «città degli angeli», il cimitero che accoglie tutte le vittime, la giovane fotografa scampata alla strage che ricorda i corpi dilaniati, il pediatra che fece da negoziatore nel vuoto di autorità e nell'assenza del potere centrale, i superstiti che non riescono a spiegarsi come siano riusciti a sopravvivere al tiro incrociato delle forze speciali russe, che al terzo giorno hanno fatto irruzione, e a quello dei terroristi... Ne esce un quadro frammentato e contorto, quasi una Guernica letteraria che ritrae la violenta complessità del Caucaso.

Un valore aggiunto della narrazione di Erika Fatland è che riesce anche a fornire al lettore una serie di punti di riferimento per capire l'odierna evoluzione della Russia di Putin, proprio a partire da quella prima serie di conflitti e violenze. Per usare le sue parole: «L'ho conosciuto a Beslan, Vladimir Putin. Non l'ho incontrato di persona, ovviamente, eppure era lì, sempre ogni giorno: era nei colloqui con le madri che avevano perso un figlio; era nelle loro lacrime, nella loro rabbia, nelle tante domande rimaste senza risposta. Fino al 2004, in Ossezia del Nord, la gente ne aveva una buona opinione. Ma dopo la tragedia, con il passare dei mesi, poi degli anni, quel giudizio si è completamente rovesciato».

Perché? Perché erano i tempi in cui l'Occidente vedeva ancora il leader russo di buon occhio. E in cui i cittadini della Federazione consideravano il suo piglio militarista giustificato. Ma con Beslan al Cremlino iniziò una svolta. L'incapacità di tutelare i cittadini russi, la volontà di non cercare a nessun costo l'accordo, costasse quel che doveva costare in termini di vite umane, emersero in pieno. Lo stile di Putin era rimasto molto sovietico. E fu ancora più sovietico quando nei mesi successivi non esitò a sfruttare la tragedia per il proprio tornaconto politico. Utilizzò l'attentato come scusa per cambiare a suo vantaggio la legge elettorale, abolendo l'elezione a suffragio diretto dei governatori delle repubbliche. Nominandoli personalmente svuotò il loro ruolo, centralizzando il potere. La sicurezza reale nel Caucaso era quel che era, ed era garantita solo dalla forza bruta. Ma cambiava la presa del presidente sul Cremlino. Sarebbe bastato meno di un anno perché Putin, a reti unificate, dichiarasse che il tracollo dell'Unione Sovietica era stato «la più grave tragedia geopolitica del XX secolo».

L'Occidente non

lo ascoltò, a Beslan lo ascoltarono in pochi, i più stavano portando bambole e giocattoli sulle tombe dei bambini morti per la furia insensata dei terroristi e l'incapacità di chi non aveva saputo né fermarli né trattare.

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