"Così ho riscoperto la ferocia dei vampiri"

Altro che Twilight. Lo scrittore svizzero Jacques Chessex racconta l’incredibile vicenda avvenuta a Ropraz: "Povertà, violenza, antiche paure e un macabro rito diedero vita a una tremenda caccia all’uomo"

"Così ho riscoperto la ferocia dei vampiri"

Scaffali e scaffali di librerie pieni di vampiri educati, edulcorati e dandy, adatti a far sospirare le adolescenti. Ma se qualcuno si mettesse a scavare e ci raccontasse davvero che cos’erano le paure e le brutalità che scatenavano le cacce al mostro nelle campagne europee? Beh, ne uscirebbe un quadro molto meno da romanzetto all’emoglobina.

È ciò che ha fatto lo scrittore svizzero Jacques Chessex, classe 1934 e un premio Goncourt alle spalle. In un brevissimo e ferocissimo romanzo, Il vampiro di Ropraz (Fazi, pagg. 92, euro 14, trad. Maurizio Ferrara), ha raccontato, con quotidiani e documenti processuali alla mano, l’ultima psicosi da vampiro d’Europa. E l’ambientazione non è quella transilvano-carpatica che ci si aspetterebbe. Correndo l’anno 1903, fu un cantone alpino della ridente Svizzera a riempirsi di cadaveri dissepolti, aglio, croci e denti aguzzi.

Ecco in breve i fatti. Nel paesino di Ropraz, durante un febbraio gelido, muore di meningite una giovane vergine. Si chiama Rosa ed è la bella del villaggio. Il giorno dopo il funerale, la tomba viene trovata aperta, il corpo mutilato, masticato. Ci sono atroci segni di canini. I giornali di Losanna ci mettono un attimo a titolare: «Il vampiro di Ropraz». La gente ci mette ancor meno a farsi prendere dal panico. Si chiudono in casa, si armano. Iniziano a vedere ombre dappertutto, a sparare. E intanto lo strazio si ripete: altre due tombe di fanciulle dissacrate. Corpi dilaniati sangue bevuto, la polizia che brancola nel buio. Poi qualcuno viene arrestato. È un garzone ventenne, Charles-Augustin Favez. Prove contro di lui, ben poche. Ma la folla lo accusa da subito. Perché? Basta qualche brutto trascorso e l’aspetto: è «di un pallore estremo... i suoi occhi iniettati di sangue come se la luce lo ferisse». Anche i suoi denti sono aguzzi, più lunghi del normale, una bocca che appare dotata di un ghigno «difficilmente sopportabile». La condanna e una serie di eventi da tragicommedia, come la misteriosa signora che paga le guardie pur di poter avere intimi incontri col «mostro», diventano praticamente inevitabili. Insomma, una vicenda incredibile che vale la pena farsi raccontare dal suo riscopritore.

Signor Chessex, un cantone svizzero è un’ambientazione strana per una storia del genere... Che luogo era l’Alto Jorat ai primi del 900?
«Era un luogo estremamente selvaggio, isolato. C’erano grandi foreste dove nel XIX secolo vivevano ancora briganti che assalivano i viaggiatori... Si dimentica troppo spesso che la Svizzera non è il Paese tranquillo e pulito che la tradizione delle banche, delle tavolette di cioccolato e degli orologi a cucù hanno troppo spesso tramandato. La Svizzera è un Paese violento come tutti quelli di montagna».

Come si sviluppa, a partire da un crimine reale, la psicosi che porta alla caccia al mostro?
«La paura appartiene a queste campagne perdute. Una paura che diviene un’emanazione del male che regna nelle coscienze, nei cuori; che diviene rimorso per una vita crudele nella quale l’incesto, la prossimità tra i corpi, l’alcol creano nelle anime una sorta di disagio perpetuo, un’infelicità fisica e morale. Quando diventa evidente che il vampiro è un abitante di quelle campagne la colpa collettiva si trasforma in odio. In questa condizione non stupisce che si cerchi un capro espiatorio».

Quali fonti ha utilizzato?
«Prima di tutto la mia esperienza, dal momento che sono nato a 12 chilometri da Ropraz, a Payerne... Numerose famiglie di Ropraz e dei dintorni avevano conservato i giornali dell’epoca. Gli articoli riportati nel romanzo sono autentici. Ho consultato inoltre gli archivi del tribunale di Oron dove ebbe luogo il processo e mi sono procurato i quaderni del padre della prima vittima, Rosa Gilliéron, quaderni molto ben conservati... La tomba violata era nel cimitero dal paese, a 15 metri, in linea d’aria, dal tavolo sul quale ho scritto il libro».

Che idea si è fatto di Charles Augustin Favez?
«È egli stesso una vittima. Ho voluto che il mio libro fosse colmo di pietà per questo presunto colpevole: i lettori più attenti hanno compreso che Favez non era il vero colpevole... Ecco perché il romanzo acquisisce una dimensione ulteriore, quella della pietas umana, della compassione cristologica (piuttosto che cristiana): comprendiamo che abbiamo assistito a un falso processo, all’ingiusta condanna di un innocente un po’ folle».

Come mai la psicologia collettiva è così portata a immaginare l’esistenza di un mostro?
«Perché abbiamo bisogno di figure emblematiche che rappresentino il male. Satana ha bisogno di rappresentarsi ai nostri occhi attraverso figure diverse...».

Oggi siamo diversi dai contadini dell’Alto Jorat?
«No. Non siamo diversi. Dietro tutta l’igiene moderna, l’ossessione per il confort e per gli abiti alla moda, non è cambiato nulla: grattata via questa patina scopriremo la Bestia, al tempo stesso bellissima e immonda...».

Il vampiro dandy è quello che va per la maggiore nei libri e al cinema. Il vampiro di questa storia vera è tutt’altro...
«Il vampiro che oggi va di moda è “igienico” e immateriale.

È immancabilmente un bellissimo ragazzo, al quale il dentista ha sbiancato i denti, appena uscito dalla messa in piega quotidiana; si veste da Armani, fa molte docce al giorno e fuma sigari Havana che gli ha regalato Julio Iglesias. Il mio vampiro è invece brutale. Ed è colui che portiamo tutti dentro di noi».

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