Bisogna frugarle bene, le quasi quattrocento pagine scritte da Nicoletta Gandus e dai suoi colleghi per motivare la condanna per corruzione giudiziaria dell'avvocato inglese David Mills. Perchè solo dalla lettura accurata di queste pagine si può avere la conferma di quanto molti temevano fin dal giorno in cui - nonostante l'entrata in vigore della legge nota come «lodo Alfano» - la Gandus decise di proseguire il suo processo. La legge bloccava tutti i processi a carico delle alte cariche dello Stato, e Silvio Berlusconi usciva dunque di scena. Ma, nell'impianto della Procura di Milano, se Mills era il corrotto, Berlusconi era il corruttore. Ed era lecito domandarsi se - proseguendo il processo a carico del solo Mills - il tribunale milanese volesse in qualche modo arrivare a proclamare la colpevolezza anche di Berlusconi, imputato non più imputato.
La lettura delle motivazioni odierne ne è, in diversi modi, la conferma. Perché i giudici non si limitano a ritenere Mills colpevole. Non si limitano a ritenere credibile la sua confessione davanti ai pm milanesi, quando nel luglio 2004 dichiarò di avere ricevuto 600mila dollari da Carlo Bernasconi, manager Fininvest oggi defunto. Non si limitano nemmeno a bollare come grossolanamente inverosimile la sua ritrattazione successiva, quella in cui accusò i pm milanesi di avergli quasi estorto la confessione torchiandolo per dieci ore. Il tribunale presieduto da Nicoletta Gandus va più in là. Indica chiaramente Silvio Berlusconi - e non Carlo Bernasconi - come il vero beneficiario della corruzione di Mills. E spiega per filo e per segno quali bugie, nel corso degli anni precedenti, Mills avrebbe raccontato alla magistratura italiana per proteggere Berlusconi. I 600mila dollari ricevuti sottobanco furono, per i giudici, la contropartita di quelle menzogne.
Scrive il tribunale di Milano: «Il fulcro della reticenza di David Mills, in ciascuna delle sue deposizioni, sta nel fatto che egli aveva ricondotto solo genericamente a Fininvest, e non alla persona di Silvio Berlusconi, la proprietà delle società offshore, in tal modo favorendolo in quanto imputato in quei procedimenti». Questo è il favore decisivo che Mills avrebbe fatto al Cavaliere. In questo modo, avrebbe cercato di proteggere Berlusconi dalla condanna nei primi due processi intentati contro di lui all'epoca di Mani Pulite: quello per la corruzione della Guardia di finanza e quello per i finanziamenti in nero a Bettino Craxi. E ancora più esplicitamente i giudici accusano Mills di avere aiutato Berlusconi a aggirare le leggi sul monopolio televisivo: «al fine di cancellare qualsiasi traccia finanziaria che avrebbe potuto ricondurre a Silvio Berlusconi la proprietà delle società offshore, e, fra esse, del canale televisivo Telepiù, in aperta violazione della legge italiana che impediva la concentrazione di proprietà di sistemi di comunicazione di massa. E questo quando l'Autorità giudiziaria italiana indagava proprio sulle società offshore, su Telepiù e altro».
Insomma: se il corpo del reato non è stato trovato - perché nessuna traccia documentale collega i 600mila dollari ricevuti da Mills alle casse ufficiali o non ufficiali di Fininvest - secondo i giudici è stato però trovato il movente. Questo rafforza la confessione di Mills fino a renderla granitica, e rende aria fritta la sua ritrattazione: «Vi sono tutti gli elementi per ritenere che la confessione stragiudiziale di Mills sia stata, di per sé, veridica, genuina, attendibile. Si può tranquillamente escludere che essa sia stata determinata da un intento autocalunniatorio oppure da una intervenuta costrizione».
Per questo Mills viene condannato. E per questo - così si potrebbe sintetizzare la «morale» della sentenza Gandus - se Silvio Berlusconi fosse rimasto imputato, il tribunale di Milano avrebbe condannato anche lui.
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