Così non "Schwa". Il linguaggio inclusivo porta a... escludere

È possibile imporre agli altri quale lingua usare, nello scritto e nel parlato?

È possibile imporre agli altri quale lingua usare, nello scritto e nel parlato? La lingua è una convenzione o un patto condiviso fra chi la usa, cioè la maggioranza o la totalità di chi la parla? Sono questioni che si ripropongono alla luce della discussione e dei litigi, anche pesanti, a proposito del cosiddetto «linguaggio inclusivo». Per cercare di inquadrare il dibattito ormai strabordante (tutti linguisti e glottologi, anche i semianalfabeti), Andrea De Benedetti ha vergato un pamphlet con il proposito dell'equidistanza sulla questione dello (della?) schwa, il simbolo fonetico scritto come una e rovesciata. Si pronuncia come una vocale intermedia, come capita di sentire in certe regioni del Sud Italia, per esempio in Campania.

In sostanza, la lingua italiana dovrebbe, secondo alcuni (secondo altri no, mentre la stragrande maggioranza della popolazione se ne frega, avendo tutt'altro per la testa), rispettare per esempio le esigenze di chi si sente escluso in quanto «non binario» (che non si riconosce nell'alternativa anagrafica «uomo», «donna»). O anche solo in quanto donna, considerato che se diciamo «fratelli» intendiamo anche le sorelle. Due femmine e un maschio che hanno gli stessi genitori sono «fratelli», non «sorelle». Dunque, per non far torto a nessuno che cosa dovremmo dire?

Non basta la lettura di Così non schwa - Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi, pagg. 104, euro 12) per saperlo, dato che di preciso non lo sa nessuno. Per restare all'esempio, il Papa ormai dice sempre «Cari fratelli e sorelle», ma si vede che ha più tempo. Siccome la lingua non la fanno gli studiosi, ma chi la parla, e siccome le regole ci sono sì, ma solo fino a quando non vengono cambiate a furor di popolo (sennò a Roma si parlerebbe ancora latino), non si capisce bene perché da alcuni nuclei di intellettuali «progressisti» sia partita una crociata furibonda per modificare la lingua corrente.

De Benedetti riassume le tesi di una linguista non accademica, ma femminista militante come Vera Gheno, la quale in effetti si sta costruendo una carriera di influencer come alfiera di questa lingua tutta a favore dei diritti delle donne e dei gender fluid. Una sindaca, una avvocata, una ingegnera, una architetta, saranno dunque maggiormente rispettate che se fossero appellate al maschile, come da tradizione? Vai a saperlo. Secondo De Benedetti, no.

Il succo del breve saggio pare questo: uno può fare tutte le battaglie di principio che vuole, ma se poi alla gente non interessa, se la gente non ha alcuna voglia di cambiare le proprie abitudini, semplicemente non succede nulla. Per dirla in modo tecnico, non è tanto il significante a influire sul pensiero, ma il significato. Non la parola che uno (una? o qualcuno che non è né l'uno né l'altro? - tanto per capire la farraginosità del sistema) pronuncia, ma l'intenzione con cui lo fa.

Il che investe l'intero ambito del politicamente corretto. Che diavolo significa «diversamente abile»? Non è che se uno sta in sedia a rotelle deve necessariamente possedere qualche superpotere a compensazione.

E perché anche così non va più bene, ma bisognerebbe usare «persona diversamente abile»? Perché mai un cieco, appartenente all'Uic (Unione italiana ciechi) dev'essere chiamato «persona con disabilità visiva?».

L'effetto è spesso grottesco, e spesso nemmeno chi è oggetto di tante attenzioni non richieste gradisce. Dunque, a chi conviene?

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