Così il Pci di Togliatti importava in Italia i metodi di Stalin

Michele Maggi ricostruisce il legame tra la dirigenza comunista italiana e Mosca. Una sudditanza totale durata decenni

Così il Pci di Togliatti importava in Italia i metodi di Stalin
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La politica di Togliatti e del Partito comunista nell'Italia repubblicana costituisce una delle pagine più brutte della nostra storia. Molte notizie si trovano nel recente libro di Michele Maggi, Il vuoto alle spalle. Croce, Togliatti e la memoria nazionale (ed. Bibliopolis). Ancora oggi non può non stupire il culto delirante che Togliatti e gli intellettuali comunisti dedicarono a Stalin. Quando (nel 1949) il dittatore russo compì settant'anni, Rinascita (la rivista diretta dal segretario del PCI) gli dedicò un numero speciale, in cui il capo del partito scriveva: «A nome della classe operaia e di tutti gli italiani nel cuore dei quali è vivo l'amore per il progresso, per la democrazia e per la pace, a nome di più di due milioni di comunisti italiani, esprimo al compagno Stalin un saluto e un augurio pieni di devozione e di affetto. () Salutiamo in Voi la forza invincibile del marxismo-leninismo, la forza invincibile della classe operaia, la realizzazione dei più alti ideali dell'umanità. () Gloria a Voi, compagno Stalin!». In questo delirio si distinsero anche intellettuali di valore, quale lo storico Gastone Manacorda e il latinista Concetto Marchesi. Il primo scrisse (nel 1953, in occasione della morte di Stalin) sulla rivista comunista Società, un editoriale intitolato Umanesimo di Stalin, in cui si leggevano queste mirabolanti affermazioni: «La legge economica fondamentale del socialismo formulata da Stalin è insieme legge morale della società socialista, la quale non conosce un'etica e un'economica distinte e separate». E Concetto Marchesi a sua volta su Rinascita: «La universalità di Colui che oggi è scomparso per non morire più nella memoria e nell'azione degli uomini è in questo prodigioso amplesso che comprende tutto il mondo del lavoro, della civiltà, della fraternità; in queste braccia protese verso tutti i popoli».

Togliatti e il Pci approvarono tutti i processi-farsa nei quali, nell'Urss e nelle democrazie popolari (cioè nei paesi europei dominati dall'Urss), venivano condannati a morte dirigenti accusati di trotzkismo, di titoismo ecc. Allo stesso modo Togliatti e il Pci approvarono, nel 1956, l'intervento armato sovietico contro la rivoluzione ungherese; e nel 1957 il segretario del Pci approvò l'esecuzione capitale di Imre Nagy, il dirigente comunista che aveva condannato l'intervento sovietico, e che, così facendo, si era macchiato, secondo Togliatti, di gravi crimini contro il suo popolo.

Potremmo continuare a lungo nell'elencare nefandezze. Ma aggiungiamo un episodio (non citato da Maggi) che riguarda lo scrittore Elio Vittorini: un episodio che chiarisce molto bene che cosa Togliatti e i dirigenti comunisti intendessero per libertà della cultura, che essi dicevano di voler salvaguardare contro l'oscurantismo clericale. Nel settembre 1945 Vittorini, iscritto al Pci, fondò la rivista Il Politecnico, con la quale si proponeva di svecchiare la cultura italiana e di aprirla alle più vitali correnti culturali: dal surrealismo alle avanguardie, dalla psicoanalisi alla filosofia della scienza. Ma proprio qui scattava la diffidenza, anzi l'ostilità dei dirigenti comunisti (Togliatti e Alicata). Che ci stavano a fare, sul Politecnico, filosofi come Sartre o Russell, scrittori come Kafka o Joyce, Hemingway o Faulkner, o addirittura André Gide? Oltretutto, in alcuni casi si trattava di autori messi al bando nell'Urss.

Togliatti in persona scomunicò Il Politecnico; che dopo qualche tempo cessò le pubblicazioni.

Che cosa concludere da tutto ciò? Che per essere dei buoni democratici occorre sì essere antifascisti, ma anche anticomunisti.

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