L'effetto fu dirompente. Dardi, daghe, guerre a frotte, teschi di stelle, divinità sanguinarie, reliquiario di belve. Non avevo mai letto nulla di simile. Soltanto qualche anno dopo capii. Leggere l'Eschilo e il Sofocle di Ezio Savino è come leggere Cormac McCarthy. Non trovo altro paragone. Il linguaggio è lo stesso: arcano, stritolato da reperti marziani, verbo-brace, verbo che ulula e annulla, che morde. Frasi apodittiche, a tagliagola, che mettono a stagionare le nostre parche convinzioni letterarie; che impongono, perfino, un destino. Distribuiscono le sorti. L'Orestea come Meridiano di sangue; Prometeo incatenato come Il buio fuori e Cavalli selvaggi.
Altri parametri, di fronte all'inarginabile, non scovo. Capisco. Si fa fatica a capire. Ricalco qualcosa, qua e là, bramiti di parole su frange d'osso, per intendere, almeno, il tono, il rombo. «È agonia di petali frutti chiusi sulle zolle. Agonia di mandrie, bestie sui poderi. Di seme che non vive nelle donne. È il dio arroventato che, piombando, frusta Tebe. È Contagio, nemico sanguinario. Smagrisce il paese di Cadmo: buio. Nulla ingrassa di singhiozzi, e lutti». E poi: «Condurla dove non c'è pista d'uomo, farla sparire viva in sasso cavo. Le darò pane, giusto per sacro scampo... Là supplicherà Nulla, il solo dio della sua fede... capirà, e sarà l'ora, che è stupida fatica il culto al mondo dell'abisso». Lingua inaudita, questa, nell'angusto regno della traduzione dei classici, arroccato tra muraglie accademiche, di arrocchita voce, esangue nella resa per non dire: illeggibile al lettore comune. Uomini sepolti vivi, mostruosi moniti («O vite vissute! Vi calcolo, vi scavo: e la somma è niente. Chi, ditemi, chi sente serenità di dio su di sé?»), profezie in provetta: Savino riporta i tragici alla loro origine primordiale, brutale, senza abbellimenti neoclassici. Per potenza visiva il suo dire rimanda alle atmosfere di Blade Runner; per striatura lirica ha parentele con il primo Milo De Angelis, con la poesia atemporale di Alessandro Ceni.
Savino pubblica le aurorali traduzioni di Eschilo nel 1978, a neppure trent'anni. Il lavoro nei tragici culmina, nel 1989, con la versione di Edipo re e Antigone. Un tempo stampati da Garzanti, ora, a dieci anni dalla morte di Savino, quei capolavori sono stati ripresi dalle Edizioni Ares in una collana di nuovo conio, di australe eleganza, «Belos», con «Invito alla lettura» (Silvia Stucchi introduce Edipo re, pagg. 176, euro 14; a Cristina Dell'Acqua è affidata Antigone, pagg. 144, euro 14). Si tratta, di per sé, a dittico, di testi che sconcertano per polline d'enigma. Da un lato, Edipo, il genio che con la ragione piega il mostro, dimostra di essere schiacciato della profezia, si acceca («Il padrone del mondo non sei tu», gli viene detto). Dall'altro, Creonte, garante della ragion di Stato, soccombe di fronte a più arcana norma la sepoltura del parente, pur avverso di cui è portavoce Antigone. La logica e la legge, in entrambe le tragedie, si sfaldano di fronte al sacro, al capriccio degli dèi, alle scellerate scelte del cuore. Armonia si incardina sul caos e viceversa.
In assoluto, la chiaroveggenza linguistica di Savino non ha pari in Italia: il lavoro compiuto da Guido Ceronetti nei gangli del testo biblico è infinitamente più tenue. Savino opera con spavalda inadempienza ai canoni spappolando una nobilissima genia di traduttori e di grecisti. Così, per dire, soltanto lui poteva tradurre il primo stasimo di Antigone con questa folle forza: «Pullula mistero. E nulla/ Più misterioso d'uomo vive./ Oltre increspato mare su folate d'autunno/ corre, rete di fragori,/ pista sotto arcate d'acqua. Tra dèi/ l'altissima, Terra,/ sempreviva, che non sa stanchezze, strema,/ aratri altalenanti, ritmo di stagioni,/ rivanga con forza di cavalli». Tale tensione agli antichi testi sapeva conferire soltanto Friedrich Hölderlin (le sue prodigiose, incantatorie, pazze versioni da Edipo il Tiranno e Antigone sono pubblicate e commentate rispettivamente da Feltrinelli e da Einaudi). Altrimenti, vi prego, leggete Savino tenendo di fianco Cormac McCarthy, il più tragico tra i romanzieri.
Savino insegnava al liceo, è stato uno straordinario divulgatore i suoi pezzi, sul Giornale, reperibili in rete, non hanno perso in brillantezza; in un articolo dell'agosto 2009 esaltava il primato sui cento metri di Usain Bolt fingendosi Pindaro. Per decenni, è stato il collaboratore più arguto e fido di Nicola Crocetti: cinquant'anni fa è uscita la sua, premiatissima, traduzione della Guerra del Peloponneso di Tucidide (ripresa quest'anno da Feltrinelli); tre anni fa proprio Crocetti ha raccolto le sue versioni dai Lirici greci, un'opera statuaria, immortale, di quasi ottocento pagine. Soltanto a lui era concesso rendere un distico di Archiloco con questa svettante sintesi: «Eccomi, io! servente d'Urlante Signore,/ io, che maneggio regalo amoroso di Muse». Un giorno, da ragazzo, andai ad ascoltare Savino. Disdegnavo per l'inclito orgoglio dei poveracci tutto e tutti; tranne Savino. Mi parve un colosso.
Coltivava l'ironia, l'arte del disincanto, una certa bronzea tenerezza. Sapeva sorridere. Dissi qualche parola scomparve. Resto dell'idea di allora. Ezio Savino è il più grande scrittore in italiano del nostro tempo è senza tempo.
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