Così la sinistra trasforma la «class action» in ricatto

Stefania Craxi*

È da tempo che il ministro Bersani, seguito a ruota da Padoa-Schioppa, annuncia con sussiego l’introduzione, anche in Italia, della class action, cioè la possibilità di un’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori. È un istituto già operante negli Stati Uniti dove ultimamente, proprio in adempimento della class action, Banca nazionale del lavoro e Crédit Suisse sono state condannate a pagare 25 milioni di dollari ciascuna a favore dei creditori americani ed europei del crac Parmalat.
In Italia la class action ha per ora solo la forma di diversi disegni di legge, di cui uno del governo, che giacciono presso la commissione Giustizia in attesa di esame. In una prima lettura si ha l’impressione di un argomento serio e difficile, trattato con estrema disinvoltura solo mirando all’effetto propagandistico dell’iniziativa.
Una class action che non voglia far danni e non si limiti a illudere il consumatore richiede ben altra prudenza e oggettività. Essa investe grandi interessi e necessita di delicati processi di attuazione. Il testo governativo prevede la possibilità per le associazioni di tutela del consumatore di ottenere dalle aziende il risarcimento dell’eventuale danno, un giudizio accelerato della magistratura e la possibilità di risarcire il singolo consumatore.
Uno dei disegni di legge, sempre di area governativa, svela il carattere demagogico dell’iniziativa, e lo spirito anti-imprenditoriale che la anima, arrivando addirittura alla configurazione di un «danno punitivo», non contemplato da nessuna disposizione civilistica, che dovrebbe essere anche esso risarcito. Si prevede inoltre la istituzione di nuove figure giuridiche atte alla rapidità dei processi, anch’esse non contemplate nei codici procedurali. Con questi provvedimenti da dilettanti allo sbaraglio noi metteremmo nella mani di singole associazioni e di singole persone, di cui conosciamo ben poco, un potere processuale ed economico del tutto sproporzionato alla consistenza e alla frammentazione di quei soggetti che il testo governativo, non sapendo bene come indicarli, qualifica come «enti esponenziali delle categorie dei consumatori», cioè della totalità dei cittadini perché non ce n’è uno che non sia anche un consumatore. E sarebbero proprio questi «enti esponenziali», ad accertare gli eventuali danni che un’azienda potrebbe arrecare ai cittadini.
Ma chi sono, quanti sono, dove sono? È facile prevedere che se le proposte che giacciono in Commissione diventassero legge, gli «enti esponenziali» di cui parla il governo crescerebbero a dismisura: chi non vorrebbe avere nelle mani un bel potere risarcitorio (e magari anche ricattatorio) senza pagare dazio alcuno? Un minimo di serietà vorrebbe che prima di affrontare l’esame e l’approvazione di una legge che investe grandi interessi e conferisce enormi poteri si procedesse a un censimento e a una conseguente regolazione, delle associazioni e degli altri soggetti collettivi che si intende legittimare ad agire in giudizio. È altresì necessaria un’audizione preventiva della controparte, le aziende, che non possono essere lasciate al rischio di subire accuse, processi e rilevanti danni d’immagine per iniziative velleitarie e prive di fondamento. La difesa dei consumatori è un bene prezioso, basta pensare al settore alimentare o a quello bancario con i vari casi Parmalat, Cirio, Banca Popolare di Lodi, i contratti ingannevoli della Banca 121, quella del Salento passata al Monte dei Paschi di Siena.

Se gli attuali strumenti di controllo non funzionano o funzionano male, ben venga la tutela dei consumatori. Ma questa tutela non può sconfinare nella parzialità, nella leggerezza, nell’irresponsabilità. La class action è una questione seria e seriamente va trattata.
*Parlamentare di Forza Italia

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