Una nota, scritta il 7 novembre del 1918, a Celle, in Bassa Sassonia, dove era stato deportato, dà il tono dei taccuini. Il tenente Carlo Emilio Gadda racconta la morte di Chitò, «studente di matematica superiore a Pavia», ragazzo di genio, di cui diventa amico. Era stato ferito ai polmoni da una pallottola, sul Vodil, alla riva sinistra dell'Isonzo: le marce lo avevano distrutto. Pur smangiato dalla fatica, «educatissimo nella terribile fame», continuava a studiare: nel suo ambito era una promessa. La descrizione del ragazzo è già letteratura «Altissimo, sproporzionato; testone su magre spalle; occhiali sugli occhi cerchiati dalla sofferenza» , le riflessioni possiedono corazza stoica «è orribile la tragedia dell'uomo che ha fatto il suo dovere, che è rimasto ferito, che soccombe così, poche ore sotto l'aurora» , le domande, invece, sono nude, semplici, pure e perciò indecenti: «Avrei dovuto far di più, ma come soccorrer tutti?», e poi, «Rivedrò la mia patria, mia Madre, i miei fratelli, gli amici, la casa?».
Come si sa, Gadda nasce interventista e dannunziano. Figlio della buona borghesia lombarda, diplomato al Parini, iscritto al corso di laurea in Ingegneria elettrotecnica, ventunenne, è il 1915, viene inquadrato nel 5° reggimento alpini, a Edolo; è inviato a Vicenza, nelle trincee dell'Altopiano dei Sette Comuni, sul Monte Zovetto. L'entusiasmo, le partite a scacchi, gli sketch sagace la descrizione dell'«anarchico Tolstoiano, spirito libero e fine, come vuol farsi credere: in realtà superficiale nel giudizio e pieno di idee secche exempla: il Manzoni è un rifrittore di roba vecchia e io sono un bamboccio ripetitore di lezioni scolastiche perché mi son permesso di citarlo» e le ironie di cristallo «Io credo che i miei compagni si son fatti della mia levatura intellettuale la seguente idea: minchione» sono presto sostituite dalla sostenuta certezza di combattere tra sprovveduti un soldato, nel giugno del '16, muore perché i compagni «si baloccavano» con «una nostra bomba a mano» e superiori non all'altezza. Nelle fotografie con l'elmetto, il soldato Gadda ha uno sguardo di indifesa indifferenza. Alla disfatta di Caporetto segue la prigionia in Germania, l'ira fredda contro i tedeschi, «maestri di falsità e di gesuitismo, ipocriti fino alle midolla», l'ora delle crude agnizioni: «Mi pare che il disprezzo vinca la pietà, che lo sdegno superi l'amore; che nel profondo del loro pensiero i nostri cari stessi ci maledicano, nella città ardente e resistente».
Il Giornale di guerra e di prigionia del tenente Gadda, ora riprodotto da Adelphi (pagg. 626, euro 35), per la cura di Paola Italia, in forma definitiva cioè, rispetto alle laboriose edizioni del 1955 e del 1965, con la presenza di nuovi quaderni, acquisiti dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma nel 2019 si può leggere in molti modi. Il primo è quello di leggerlo per ciò che è: una folgorante e terribile testimonianza della Prima guerra. Il secondo è un modo, per così dire, da mania mantica: prevedere in questi paragrafi, nonostante le avvertenze di Gadda «Nessuna preoccupazione letteraria»: che però può leggersi a specchio: assidua preoccupazione formale la metamorfosi del tenente in ingegnere, in sommo scrittore. È una formula plausibile. Le trincee della Grande guerra sono state la fucina della grande letteratura del Novecento. Ben più dei salotti parigini, dei club londinesi, delle belle riviste di Firenze e Roma. Sui cadaveri e sulle macerie della Prima guerra si è costruito il nostro mondo, un nuovo linguaggio (la Seconda sarà celebrata dal cinema prima che dalla letteratura).
Per capirlo, bisogna sfogliare il Giornale di Gadda insieme all'antologia dei War Poets inglesi curata da Paola Tonussi per le Edizioni Ares (pagg. 320, euro 20): si raccontano, con stregata violenza, nell'agone dell'insensatezza, analoghe atrocità. «Il cervello di un uomo è schizzato/ Sul viso di un barelliere.../ L'anima che stava annegando era ormai affondata troppo in profondità/ Per la tenerezza umana», scrive Isaac Rosenberg, ucciso da un cecchino ad Arras, in Francia, all'alba del primo aprile del 1918 e sepolto in una fossa comune. I «Poets of the First World War» sono eternati nel Poets' Corner, a Westminster: insigni poeti da Rupert Brooke a Ivor Gurney, da Wilfred Owen a Sigfried Sassoon che forgiano, nel massacro, il lignaggio di una nazione. Nel 1929 l'editore Vallecchi pubblica una commossa Antologia degli scrittori morti in guerra: ma chi si ricorda, ormai, di Giosuè Borsi e di Mario Pichi, di Vittorio Locchi, Nino Oxilia, Ugo Ceccarelli, Mario T. Rossi... Non si tratta di operare per ideologiche nostalgie: la Grande guerra mette alla prova il Futurismo, inaugura la scrittura di Gadda, di Curzio Malaparte, di Giovanni Comisso tutti volontari al fronte , fa sbocciare poeti straordinari, Giuseppe Ungaretti, è ovvio, ma anche Clemente Rebora («C'è un corpo in poltiglia/ Con crespe di faccia, affiorante/ Sul lezzo dell'aria sbranata»), Piero Jahier, Sergio Solmi (per orientarsi si legga l'Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale curata da Andrea Cortellessa come Le notti chiare erano tutte un'alba, Bompiani, 2018).
La letteratura, che ha denti sulle mammelle, sulle braccia, sulle mani, ovunque, per risciacquarsi, per rifondarsi, ha bisogno del sangue? Così credono i genieri da scrivania, gli Orfeo alla finestra. In guerra, epica dell'ordine, cioè del sopruso, semplicemente, si muore la letteratura è per chi sopravvive. La letteratura è sempre reduce, è sempre un resto, il favo di miele nel corpo scannato dalla bomba.
Nel 1934, per le Edizioni di Solaria, Gadda pubblica Il castello di Udine, con cui vince il Bagutta. È il suo secondo libro. Nel secondo di quei ricordi, Impossibilità di un diario di guerra, Gadda confessa la propria colpa. «In guerra ho passato alcune ore delle migliori della mia vita». Poi perfeziona la colpa, la affila, perché quella colpa è l'oro della sua giovinezza, quella colpa è il suo cuore. «Ho fatto fuoco e comandato il fuoco con convinzione e con gioia... La mitragliatrice modello 907 F l'ho carezzata, l'ho tenuta pulita, l'ho unta, l'ho vaselinata, l'ho puntata mirando e facendo fuoco con cura diabolica: è stata la più bella macchina, di tante macchine della mia vita; che Dio le faccia pur girare». Ma questa è già letteratura, appunto.
Il Giornale di Gadda, invece, va letto per capire dove comincia la letteratura, perché si scrive e che senso ha scrivere. Il Giornale, con frugale fragore, parte come un inno e si spegne in requiem, crede nel trionfo se non altro, dei propri vent'anni e cede al cupo grigio agostiniano. Il Giornale diventa uno Zibaldone allucinato dagli shrapnel, un esercizio di spoliazione: «La mia vita è inutile, è quella d'un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né fede...
Non noterò più nulla, poiché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo». Quando non c'è nulla da annotare, allora si comincia a scrivere. Dalla crisalide muta del soldato nasce lo scrittore: per arrivare al verbo occorre annientarsi.
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