Cremonini, maestro filosofo della luce

Nessun pittore italiano nel nostro tempo ha avuto tanta attenzione per il pensiero (non per la letteratura) come Leonardo Cremonini. Pittore filosofico, metafisico, non nel senso della invenzione dechirichiana ma in quello della poesia inglese del ’600, di John Donne e di Andrew Marvell, Cremonini ha fede incrollabile nella pittura come rivelazione del pensiero, come strumento che supera la parola, e non la illustra, la interpreta e la approfondisce. Proprio come indicava Leonardo (Da Vinci), per Leonardo (Cremonini), «la pittura è cosa mentale». Mai un solo segno, mai un colore nei suoi dipinti sono frutto del caso o lasciati al caso.
All’opposto dell’esperienza informale, e negli stessi anni, Cremonini, coetaneo di Twombly, persegue una ricerca tutta razionale attraverso la quale, come nelle migliori prove del surrealismo storico, si rivela l’inconscio. L’Italia non era il teatro adatto per il disvelarsi di un’esperienza così complessa, e Cremonini, pittore italiano nella tradizione di Piero Della Francesca, troverà spazio per esprimersi liberamente soltanto a Parigi. Pur vivendo in Francia nell’aria libera della moderna tradizione delle avanguardie, Cremonini, bolognese, stabilirà punti fermi in Italia, in luoghi magici, Ischia, Panarea, Firenze.
Questa sua condizione di esilio, questo suo essere straniero in patria prima che una scelta è una necessità nella consapevolezza della dimensione provinciale e del pensiero unico in cui si dibatte la ricerca artistica italiana a partire dagli anni Cinquanta nel contrastante dominio di Guttuso e di Vedova. Per diverse ricerche non sembra esservi spazio o tolleranza, altro che esse siano fatte filtrare o affiorare da fuori. Analoga fu la posizione, con diversi esiti, del più giovane Valerio Adami. Ora che Cremonini è morto, la sua anomalia è anche più evidente nell’imbarazzo e nel sostanziale distacco, se non indifferenza, con cui la sua scomparsa è stata registrata dalla cultura e dalla politica italiana e anche nel riscontro dei media in televisioni e giornali.
Cremonini era probabilmente il più importante pittore italiano universalmente riconosciuto, ma non ha avuto un milionesimo dell’attenzione tributata a Mike Bongiorno. Disinteresse dell’opinione pubblica o anomalia e imbarazzo della cultura italiana? Quali pittori, scrittori, giornalisti lo hanno ricordato? Giorgio Agamben o Massimo Cacciari o Paolo Fabbri o Umberto Eco hanno dato segnali che potessero avere almeno la eco della contemporanea, e certamente dolorosissima, scomparsa, non dico di Raimondo Vianello, ma di Edmondo Berselli? Cremonini ha fatto meno di loro? Per alcun tempo egli fu anche principe (ovvero presidente) dell’Accademia di San Luca, ma la sua scomparsa rivela la stessa inadeguatezza delle istituzioni che si manifesta nella totale assenza di sue opere nelle collezioni della Gnam e del Maxxi, istituzioni prodighe di acquisti pericolosamente vicini al nulla. D’altra parte vedere le opere di Cremonini, come è stato possibile recentemente in una grande mostra ad Atene, estremo e maestoso tributo all’artista, ne fa capire la luminosa maestà. La luce diurna, solare dei suoi dipinti è luce della ragione, in un continuum che, per circa 70 anni, indica il percorso di una folgorazione, come un cammino di estasi, tutta razionale, ma rivelatrice di turbamenti, ossessioni, contraddizioni che la rendono affine all’esperienza più convulsa, ma non più tormentata, di Francis Bacon. Possiamo dire che l’Italia non se n’è accorta. D’altra parte un amico e sodale di Cremonini, Karl Plattner, consumò il fuoco di un’analoga ossessione nel suicidio; e un altro affine, come Dino Boschi, rimanendo nella nativa Bologna, si è chiuso in un ghetto, equivocato per hortus conclusus in cui stemperare luci e tenebre, sussurri e grida, in una dimensione crepuscolare. Boschi è andato verso la fine della luce. Cremonini è salito, come nell’esperienza di San Giovanni della Croce, fino alla cecità per troppa luce, nella sfida alla potenza dei sensi. Ma la luce era dentro di lui, non poteva abbandonarlo: «Te lucis ante».
Il percorso di Cremonini, di impeccabile coerenza, non poteva né sottoporsi né contrapporsi alle mode; è stato un percorso inevitabile; e, durante i trionfi di esperienze di gruppo come l’arte povera o della transavanguardia, un’affermazione di individualismo. In un viaggio non solitario in cui scrittori, filosofi, pittori, registi erano compagni di strada diversamente visionari, da Bunuel a Italo Calvino, da Giuliano Briganti a Louis Althusser, da Luigi Carluccio a Lorenzo Tornabuoni, da Giorgio Soavi a Ivos Margoni, da Alberto Moravia a Sebastian Matta, da Michel Butor a Henri Cartier-Bresson. E i pittori che egli sente affini hanno nomi rari e strani, rispetto a quelli quotidianamente esibiti nelle mostre e nelle ricostruzioni critiche del suo tempo, che è stato anche il nostro. In un territorio di ideale persistenza surrealista egli incrocia, e sente affini, Balthus, Leonor Fini, Paul Delvaux, Stanislao Lepri, Eugene Berman, Fabrizio Clerici, Enrico D’Assia, Enrico Colombotto Rosso e anche Giannetto Fieschi, altro grande pittore che ci ha lasciato da poco.
Un arcipelago di isole, intese come vite interiori irriducibilmente distinte, ma unite da una tensione che, in Cremonini ha il più alto diapason nella coincidenza tra ragione e deragliamento dei sensi. Un’ansia terribile e angosciosa. Ma la pittura è il medium più espressivo, un’autentica rivelazione, altro che Buren o Andy Warhol. Gran parte dell’arte contemporanea è, per Cremonini, arte applicata, gioco senza impegno, divertimento neppure intellettuale, facile provocazione. Ciò che interessa a Cremonini è l’arte implicata, come egli diceva, come è in Francis Bacon, come in diverso modo voleva Giovanni Testori. Questo egli ha perseguito per tutta la vita, senza cedimenti. L’arte riguarda l’uomo, il suo destino ultimo. E, diversamente dalla fotografia, che rappresenta e riproduce la morte, la pittura rappresenta e riproduce la vita. Un quadro di Degas, o un quadro di Monet, o un quadro di Velázquez sono eternamente presenti, sono vivi, hic et nunc. Una fotografia del 1910 mostra il suo tempo, denuncia gli anni e l’epoca. Questo mi insegnò il filosofo Cremonini in un incontro a Villa Medici sui rapporti fra fotografia e pittura. Nel corso degli anni ho sempre guardato alla sua opera come a un trattato teologico-filosofico a metà strada fra Cartesio e Freud, o tra Spinoza e Proust.

Ora che non c’è più mi premeva richiamare la luminosa complessità della sua impresa artistica anche ricordando che nessun artista italiano in anni recenti ha avuto tanti e innamorati allievi, attenti al suo magistero come Cremonini, da sua moglie Roberta Crocioni al giovane artista greco, valorosissimo, Edouard Sakailan. Loro avranno il compito di tener viva nel mondo la lezione dell’ultimo maestro.

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