
Era gremito ieri il Circolo dei Lettori a Torino per ascoltare Michele Padovano e la sua storia emblematica racchiusa nelle pagine di «Tra la Champions e la libertà» (Ed. Cairo) che qualche scuola non farebbe male ad adottare come libro di testo. Le vicende extra calcistiche che lo juventino ha narrato sono infatti una lezione di quella che, un tempo ormai lontano, si chiamava Educazione Civica: disciplina che la Pubblica Istruzione ha poi cancellato dalle materie di studio, come se imparare a rapportarsi correttamente con lo Stato sia un finalità secondaria o addirittura inutile.
Del Michele Padovano attaccante implacabile e vincitore di Champions i tifosi della sua generazione (anni ’90) conoscono tutto; del Michele Padovano uomo perseguitato dalla (in)giustizia si sa invece poco. Il libro, il documentario Sky, gli incontri con i giovani hanno quindi un valore di importante testimonianza per degli avvenimenti dinanzi ai quali non si può - e non si deve - rimanere indifferenti. Diciassette anni trascorsi nello strazio (fisico e psicologico) di dimostrare la propria innocenza: «Sarebbero bastati 17 minuti di buon senso per capire che io non ero colpevole di nulla, e invece...», racconta l’autore. Nelle parole non c’è rancore o rabbia, ma l’amarezza sì. E tanta. Essere additato come «narcotrafficante», conoscere la prigione, essere scagionato al termine di un iter vergognosamente lungo, è un percorso che può fare impazzire.
Padovano invece non solo è riuscito, miracolosamente, a non impazzire, ma addirittura oggi racconta agli studenti che «bisogna continuare ad avere fiducia nella magistratura». Poche settimane fa lo ha ripetuto a una platea di 600 ragazzi che lo hanno ascoltato affascinati, senza - incredibile ma vero - mai cedere alla tentazione di sbirciare il telefonino. I fatti rievocati da Padovano lasciano il segno. Lui, arrestato con modalità da pericoloso bandito, lui offeso dalle guardie carcerarie, lui che cerca di far capire che quei 40 mila euro prestati a un amico non servivano per «comprare la droga» (come sostenuto dagli inquirenti), ma solo per «aiutare un amico a comprare un cavallo» (come sostenuto da Padovano).
Per chiarire l’«equivoco» ci sono voluti 17 anni: dal 2006 con i poliziotti che, pistole in pugno, gli schiacciano la testa a terra e all’uscita da un ristorante lo ammanettano come fosse un boss («Potevano dirmi di seguirli e io lo avrei fatto tranquillamente...) al 2023 con l’assoluzione nel processo d'appello bis. Nessun risarcimento economico dallo Stato, ma un enorme risarcimento umano da parte della gente comune che dell’innocenza di Michele non ha mai dubitato. Anche prima, nel periodo buio, quando i tanti finti amici e colleghi del calcio si erano eclissati vigliaccamente («Con l’eccezione di Gianluca Vialli e pochissimi altri...»). «Non porto rancore a nessuno. Da tante persone mi sarei aspettato un gesto di solidarietà. Che purtroppo non è arrivato...», per fortuna a sostenerlo c’è sempre stata la moglie e il figlio: due rocce mai scalfite neppure dalle menzogne che i media inventavano sul «capo del narcotraffico». Gli hanno rubato un pezzo importante di esistenza, ma Padovano rimane sereno: «Ho scritto questo libro anche a nome di chi, da innocente, è costretto a rimanere dietro le sbarre e non ha voce o strumenti per combattere; io ho avuto la forza caratteriale e le risorse finanziarie per riemergere dall’abisso, ma altri che non hanno possibilità restano schiacciati da un meccanismo infernale».
Padovano in cella ha mai pensato alla morte? «C’era sconforto, ma non rassegnazione. Sapevo che ero innocente e che la verità, prima o poi, sarebbe emersa. In galera ho conosciuto persone eccezionali, migliori per tanti versi di quelle che stanno fuori...». I ricordi pesano, ma a far più male sono forse quelli legati a certe persone che «quando chiedevo un aiuto per continuare a lavorare nell’ambiente del calcio, accettava di incontrami nei sotterranei, per paura di compromettersi...».
Il figlio di Padovano si chiama Denis, in onore di Denis Bergamini, compagno di squadra (e di camera) di Michele ai tempi in cui giocavano insieme nel Cosenza.
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