Il divorzio in tribunale tra buonsenso e diritto

I giudici di Venezia si aggrappano a un dato: le settantacinque coltellate sarebbero "conseguenza di inesperienza e inabilità"

Il divorzio in tribunale tra buonsenso e diritto
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È un po' il divorzio fra buonsenso e diritto. Settantacinque coltellate sono per l'opinione pubblica sinonimo di crudeltà. Ma le stesse settantacinque coltellate non bastano alla Corte d'assise di Venezia per infliggere l'aggravante della crudeltà. Filippo Turetta va ugualmente all'ergastolo ma non si può dire che si sia comportato crudelmente con Giulia Cecchettin, la sua vittima, macellata con una furia indicibile.

Gli esperti di femminicidi parlano di overkilling: la volontà di cancellare quella persona, di eliminarne l'identità, colpendola quindi con un numero spropositato di colpi.

Sarà, però si resta a disagio davanti a una macelleria messicana di questo tenore. I giudici di Venezia si aggrappano anche a un altro dato: le settantacinque coltellate sarebbero «conseguenza di inesperienza e inabilità». L'assassino si è accanito perché non era un killer professionista, un soldato di mafia abituato a navigare nel sangue e a sporcarsi le mani. Turetta è stato accecato da sensazioni e emozioni fortissime che l'hanno spinto a compiere quel gesto terribile e senza ritorno, spaventoso, se vogliamo, ma non crudele.

Ancora una volta, ci muoviamo sul filo del paradosso, e diventa difficile distinguere quel che ci vogliono spiegare i professori di giurisprudenza.

Mettiamola così: forse non voleva essere crudele, ma lei è morta in modo crudele. Peggio di così è arduo immaginare. Un vero e proprio supplizio, agghiacciante nello svolgimento, descritto proprio dalla corte d'assise. L'aggressione è durata circa 20 minuti, «lasso di tempo durante il quale lei ha avuto la possibilità di percepire l'imminente morte».

Si può concepire un destino più atroce?

Però, sulla bilancia della giustizia, la crudeltà richiede altri specifici ingredienti: una sofferenza gratuita e aggiuntiva. Ti faccio piangere non perché ti sto uccidendo, ma per il piacere di vederti rantolare. Di torturarti. Di questo scempio non c'è la certezza: «Manca la prova - scrive il collegio - che l'aver prolungato l'angoscia dalla vittima sia atto fine a se stesso, frutto della deliberata volontà dell'imputato di provocarle una sofferenza aggiuntiva e gratuita».

Il processo, almeno quello di primo grado, si ferma sulla soglia di questo abisso, pur spedendo il giovane in carcere per tutta la vita, noi ci teniamo le nostre convinzioni che non coincidono perfettamente con quelle dei maestri della dottrina, ma alla fine non sono poi cosi lontane. Anzi: non scatta l'aggravante, non semplice tecnicamente da dimostrare, ma Giulia ha avuto, oltre alla sfortuna di morire giovane per opera di una mano sciagurata, anche una dose supplementare di dolore che le poteva essere risparmiato.

E la consapevolezza, quasi insostenibile, di essere arrivata di colpo, inaspettatamente, sulla linea dell'orizzonte.

Davvero un destino crudele nella stagione in cui la vita non è più una promessa ma comincia a dare i suoi frutti.

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