“Per questi motivi” è la formula usata nelle sentenze in tribunale. Ed è anche il titolo del nuovo libro (edito da Sem nella collana Italian Tabloid, che si ispira al titolo del celeberrimo romanzo di James Ellroy) di Giancarlo De Cataldo, ex magistrato e scrittore, che ha raccolto alcuni casi di cronaca nera e giudiziaria, alcuni molto noti altri meno, squarciando di fatto quella barriera di apparente incomunicabilità che oggi più che mai sembra essere al centro di una dicotomia tra magistratura e opinione pubblica.
Ma i giudici hanno delle ragioni, una sentenza non nasce mai dal nulla. De Cataldo esplora queste ragioni, quasi entrando nella storia, e regalando a lettori e lettrici delle piccole digressioni legate al vissuto personale ma anche approfondimenti su ulteriori letture e cultura pop. Ne emerge una scrittura ricchissima di contenuti e foriera di risposte. Ma anche di domande, come queste de IlGiornale a cui l’autore ha risposto.
De Cataldo, nel libro è scritto che la cronaca nera non è morbosità, ma lo specchio del Paese. Come mai è giunto a questa conclusione?
“Studiando molto, anche la storia. Nel senso che la cronaca nera accompagna tutta la storia dei gialli, ho scritto gialli per anni. Partendo dall'Ottocento c'è questo fenomeno dei fatti criminali che hanno sempre appassionato le masse, ma ne possiamo trovare tracce addirittura nell'Antica Roma e nell'Antica Grecia. Poi oggi noi l'abbiamo sistematizzata, la chiamiamo cronaca nera ma racconta fatti che molto spesso interessano tutti noi, al di là della morbosità”.
Già dal capitolo su Christa Wanninger, il cosiddetto “delitto di Via Veneto”, si comprende che il suo è un racconto molto personale rispetto alla percezione delle vicende raccontate (tra l’altro ha scritto il romanzo “Dolce vita, dolce morte” ispirato all’omicidio). È semplicemente un modo inedito di narrare o c’è un’altra ragione?
“Ho varie ragioni per questa scelta. I casi contenuti nel libro sono quelli che hanno incrociato la mia vita, sia come suggestione sullo sfondo come quello appunto di Christa Wanninger, sia perché me ne sono occupato. Questo da un lato. Dall’altro lato ho fatto il magistrato penale per 40 anni e per 25 mi sono occupato di omicidi. Posso quindi dare una riflessione per aiutare a comprendere come ragiona una corte d’assise”.
Calvino e Pasolini ebbero una diatriba in merito al massacro del Circeo: crede che quella violenza che Pasolini aveva profetizzato senza coglierne ancora il dettaglio del delitto di genere sia una caratteristica che ricorre anche nella cronaca di oggi?
“Al tempo sarebbe stato molto difficile sia per Pasolini che per Calvino cogliere il dato del genere, nel senso che la società si è molto sensibilizzata su questo punto, enormemente sensibilizzata. Quindi adesso ci pare una riflessione che andava fatta anche allora, però allora i nostri momenti culturali erano proiettati altrove: i grandi intellettuali come Calvino e Pasolini consideravano la questione di genere meno importante della questione di classe. Però la violenza oggi come ieri è un connotato essenziale del delitto di sangue, cioè non ci sarebbe il delitto se non ci fosse violenza e viceversa, quindi noi che ce ne occupiamo mettiamo nell'analisi di questi fatti anche il nostro mondo contemporaneo. Oggi siamo più attenti a quel tipo di violenza”.
Nel capitolo sugli Anni di Piombo, cita la strage di via Fani, decidendo però di non aggiungere nulla perché tutto è stato già detto. Eppure è necessario citarla per avere un quadro completo.
“Quello di via Fani è stato un delitto spartiacque. Rapire e uccidere Moro è stato come uccidere Lincoln o John F. Kennedy. Cioè sono quei delitti altissimi che cambiano la storia di un Paese o comunque contribuiscono a cambiare la storia di un Paese, però veramente se n'è detto e scritto tanto. Allora ho preferito soffermarmi su altri fatti degli Anni di Piombo, non potevo cavarmela con un piccolo articolo o qualche paginetta su un fatto così importante e sul quale io stesso avevo scritto altre volte”.
Ha scelto di raccontare della strage della Sinagoga di Roma, nella quale nel 1982 rimase vittima un bambino di 2 anni, Stefano Gaj Taché. Crede che quella vicenda abbia un’attinenza con il presente?
“Avevo cominciato a collaborare con un documentario sul tema e prima ancora con un podcast. Era prima del 7 ottobre, poi è precipitato tutto nella contemporaneità. Siamo nella Storia ma siamo anche nel presente. Sono convinto che non si debbano uccidere i bambini: è un attentato al senso del sacro che anche il più laico di noi ha dentro di sé”.
Perché dobbiamo ricorrere allo zeitgeist per comprendere il delitto commesso da Terry Broome?
“Non è necessario ricorrere allo zeitgeist, infatti ci sono persone convinte che la cronaca nera sia una serie di fatti che non hanno necessariamente un rapporto con la storia e con il tempo. Ogni delitto può sopportare tante giustificazioni, però sta di fatto che in una società nella quale diventare una modella di successo è un mito, un obiettivo come oggi lo è diventare un’influencer, quel tipo di delitto può avvenire solo in quel momento e in quel contesto. Non c’è un altro scenario possibile come non c’è stata più una Milano da bere, quella frenesia di riscoprire la gioia di vivere e anche di spendere dopo gli Anni di Piombo”.
Scrive che le chiedono spesso cosa ne pensi del giallo di via Poma. Le poniamo una domanda lievemente diversa: si arriverà mai a una soluzione, tenendo anche presente che ci sono ambiti in cui il Dna potrebbe non essere la cosiddetta “prova regina”?
“Ho detto qualche volta che è difficile, perché è passato molto tempo. I materiali genetici sono stati consumati, però non bisogna mai perdere la speranza. È da un lato un dovere per gli investigatori continuare a cercare quando ci sono degli elementi concreti, non inseguire delle teorie strampalate. Dall’altro lato c'è anche quella vecchia legge per cui più tempo passa e meno possibilità ci sono di risolvere un caso: è vera, vera e sacrosanta. Quindi io non perdo la speranza, ma sono ragionevolmente pessimista sulla possibilità di risolvere quel caso”.
Aristotele scrive: “La legge è la passione libera dalla ragione”. Ma nel capitolo “Labirinti” parla di diversi casi e vi troviamo un concetto interessante: empatia. Può l’empatia entrare nell’aula di un tribunale?
“Non lo so se quel capitolo è percorso dall’empatia. Quel capitolo ha una connotazione molto precisa e ci dice: attenzione, perché il giudice ha bisogno di rivolgersi anche a degli esperti non di diritto, e quando stai affrontando un delitto che potrebbe avere una componente psichiatrica ti devi affidare agli psichiatri. E dagli psichiatri ti possono arrivare delle indicazioni anche contrarie al tuo modo di vedere o di ragionare, perché tu sei convinto che l'assassino estremamente efferato sia pazzo, e invece ti spiegano che non lo è, e viceversa. E non devi avere questa riserva mentale di dire: ma se diciamo che è pazzo allora gli dobbiamo calare la pena e questo è inaccettabile. Più che l'empatia qui gioca il rispetto nei confronti della scienza, il rispetto però anche la consapevolezza che anche la scienza vive nella storia, quindi il progresso cambia le cose”.
Come mai ha deciso di includere nel volume il capitolo su “La sceneggiatura”, la vicenda di una rapina finita nel sangue sulla base del catfishing di una donna sul marito?
“Perché è un caso che ho trattato e mentre le prove arrivavano e noi ricostruivamo questo caso ci domandavamo: ma com'è possibile? Io per esempio mi sono chiesto com'è possibile che qualcuno venga da me e dica: senti ti va di interpretare il finto datore di lavoro o il finto poliziotto perché io sto aiutando, attraverso una rappresentazione teatrale, la mia coppia uscire da una crisi? Mi è sembrata veramente una storia ai confini dell'inverosimile. Eppure era tutto vero”.
In ogni capitolo del libro c’è un riferimento alla cultura pop, come libri e film. Nel caso di Wilma Montesi si parla di una teoria - che poi comunque confluisce nel processo - che sembra quasi “Il grande Gatsby” che incontra “Eyes Wide Shut”. Quando parliamo di cronaca nera è l’arte che imita la vita o è il contrario?
“Delle influenze - ormai lo sappiamo da quasi cent'anni, da quando abbiamo cominciato a raccontare il gangsterismo americano e poi la mafia - le influenze sono reciproche. È vero che alcuni banditi si ispirano alle fiction, però è anche vero che il crimine è sempre stato raccontato dagli esseri umani e ci ha sempre affascinato, perché noi sappiamo dentro di noi, anche quelli che lo negano, di essere composti in eguale misura di bene e di male, e per fortuna la stragrande maggioranza di noi sceglie il bene e non il male.
Però il male esiste, non c’è, credo, nessuna religione al mondo che abbia mai promesso di abolire il male: ogni ogni grande credo religioso ti dice che devi combattere il male ma l'assenza di male riguarda il paradiso, la vita ultraterrena”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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