Venticinque anni dopo, Roland è poco più di un fastidio, un impegno da onorare, un pensiero distratto, qualcuno diventato qualcosa da rammentare in fretta e senza partecipazione, quasi fosse un indirizzo scarabocchiato da consegnare a chi cerca ben altro. Perché se ad ogni ricorrenza si vuole arrivare ad Ayrton Senna, per magnificarne (...)
(...) gesta e grandezza, la via da percorrere è obbligatoria: dobbiamo tutti passare da Roland Ratzenberger, Imola, 30 aprile 1994, lo sconosciuto che non aveva vinto niente morto il giorno prima del brasiliano che aveva vinto tutto.
Ogni anno, da quel fottuto week end di mezza primavera, Roland si trasforma in un google maps della commozione sportiva, un codice di avviamento postale della memoria, un civico di passaggio sulla strada del ricordo a cui però nessuno si ferma mai. Perché serve solo ad orientarsi mentre si corre a celebrare l'altro, il grande campione. Manca Ayrton, non Roland. Anzi, Roland non esiste, non è mai esistito tranne che per quella manciata di persone che gli ha voluto bene; tranne per quel ragazzone a cui salvò la vita in pista mentre correva in Giappone; tranne per quella coppia di amici che difese affrontando l'ubriacone violento che brandiva un coltello.
Pesano come campionati del mondo vinti, questi gesti? La vita salvata ad un collega vale un campionato del mondo? Il coraggio di affrontare a mani nude un aggressore e difendere gli amici vale un campionato del mondo? Se fosse così, il bilancio dei trofei fra il morto sconosciuto del giorno prima e l'immenso morto del giorno dopo sarebbe già diverso. Solo che a far bene i conti con l'anima, cosa a cui Ayrton, negli ultimi anni, si dedicava ogni giorno portando con sé la Bibbia, questi conti direbbero che l'anonimo austriaco, nell'affrontare certe cose della vita, è stato più campione del famoso brasiliano.
Perché a rispolverare con fatica la storia nascosta del morto del giorno prima, l'interrogativo di chi sia stato più campione diventa un compagno di viaggio. Più campione il rampollo di una famiglia di miliardari brasiliani morto a 34 anni dopo aver vinto tre titoli mondiali di F1? O più campione il morto 34enne figlio di un impiegato dell'istituto pensioni di Salisburgo che, da ragazzo, osservava dalla finestra la scuola di pilotaggio di fronte a casa, che si sporgeva per indovinare dal rumore del motore i modelli delle auto che transitavano, che i bolidi li sognava solamente fino a che la nonna, un giorno, non lo rapì portandolo in gita a vedere le gare in salita?
Più campione l'uno o l'altro? Campione il bimbo Ayrton salito su un kart a 4 anni, cresciuto sulla pista nella tenuta di casa, il bimbo Ayrton pervaso di talento e divorato dalla passione, il bimbo che odiava perdere e che un giorno, dopo aver masticato amaro per colpa di un rivale che l'aveva battuto sotto la pioggia, decise che a casa non voleva più solo una pista di kart, ma una pista che si potesse allagare per allenarsi sul bagnato? O campione l'adolescente austriaco folgorato dai motori che tardivamente riuscì a iscriversi alla scuola di pilotaggio e che al pomeriggio, per pagarsi le corse, arrotondava lavorando dal fornaio del paese?
La domanda ci accompagna e inquieta, ci culla e agita, ci fa sentire bene e sentire male, a nostro agio e a disagio. Più campione il 24enne brasiliano che nella stagione del debutto in F1 lascia i rivali e il mondo a bocca aperta umiliando Alain Prost a Monte Carlo, anno 1984? Ayrton su una Toleman. Alain sulla McLaren. Gran premio sotto il diluvio interrotto prima della metà e su pressione del francese che ad ogni giro indicava il cielo, sentendo il sudamericano sempre più addosso. O più campione il meccanico austriaco che negli stessi mesi e alla stessa età di Ayrton, 24 anni, a furia di corricchiare qua e là fra Salisburgo e la Germania finalmente vince qualcosa? E tenta il grande passo: emigra in Inghilterra per disputare il campionato di Formula Ford dove vincerà 11 delle 19 gare a cui prende parte.
Campione, Ayrton. Splendido. Immenso. Unico. Ma campione anche l'ex fornaio che in quello stesso periodo si barcamena nelle serie minori inglesi e che, l'anno dopo, quando Senna è ormai una stella del motorsport, raggiunge il proprio momento di massima gloria e notorietà. Accade il giorno in cui lo invitano in tv. Succede perché il suo nome e metà cognome sono uguali a quelli di un personaggio della tv per bambini che impazza Oltre Manica: Roland Ratz. Un ratto. Un grosso ratto. E Roland Ratzenberger viene chiamato in tv per girare una puntata in cui gareggia contro il pupazzo ratto gigante. Pilota contro topone. Non il massimo. Ovviamente, per la gioia di milioni di bambini a vincere sarà Roland Ratz; ovviamente barando. In cambio, lo sconfitto Roland Ratzenberger si porterà a casa un po' di soldi e un po' di fama. Serviranno per correre e attirare qualche sponsor in più. Serviranno anche per vincere la Race of Champions di Formula Ford e il prestigioso Brands Hatch Formula Ford Festival. Successi che lo aiuteranno a tentare l'avventura in F3 ma non ancora a catturare l'attenzione della F1. Saranno però sufficienti per emigrare in altre categorie e altri luoghi. In Giappone, dove vincerà di più, dove non sarà idolo ma sarà apprezzato da chi ha bisogno di gente esperta di motori e a poco prezzo. La Toyota, ad esempio. Ne diventerà collaudatore. Con la casa nipponica parteciperà a una 24 Ore di Le Mans, 5° assoluto, primo della sua categoria. Il lampo nella notte. Ma un bagliore abbastanza intenso per condurlo, tempo dopo, alle porte del Circus.
Ancora. Più campione Ayrton che ha appena sconfitto tutti i giganti della F1, i Lauda, i Prost, i Piquet, i Mansell, facendo sognare milioni di appassionati? O più campione Roland sconfitto da un topo gigante e che insiste faticosamente a inseguire il sogno? Più campione il fenomeno brasiliano che nel 1990, uno anno esatto dopo aver subito lo sgarbo di una manovra che lo aveva privato del titolo, ricambia gelidamente l'autore, Alain Prost, passato alla Ferrari, e pronti, partenza, via, in Giappone, a Suzuka, gli punta addosso la McLaren e lo manda fuori alla prima staccata? O più campione l'austriaco che un giorno cupo, sempre in Giappone, vede davanti a sé un altro pilota, Anthony Reid, perdere il controllo della monoposto alla velocissima curva 100R del Fuji, vede l'auto capottarsi, vede il casco del poveretto volare via, e allora si ferma, slaccia le cinture, salta giù e corre a tirare fuori il disgraziato? C'era sangue dappertutto, i commissari di pista erano fermi e sotto choc, sicuri che il pilota fosse morto, Roland lo salvò.
È vero, può sembrare, anzi, non sembra, è proprio così, è ingiusto confrontare due gesti e due carriere talmente diverse. È vero, può sembrare che si voglia in questo modo sminuire il grande campione a favore del mai campione. Però quando a 34 anni, al 58esimo giorno da pilota di F1, sull'anonima Simtek, uno sconosciuto che si è dannato all'inseguimento del proprio sogno muore il giorno prima del pilota più affascinante della storia delle corse, allora è il minimo che gli si debba. Sono 44 i piloti che hanno perso la vita in F1, l'ultimo il povero Jules Bianchi, tradito da una gru entrata in pista. Di tutti loro si è parlato, per tutti loro ci siamo commossi. A tutti loro e alle loro famiglie ci siamo umanamente avvicinati.
Perché appartiene alle crudeli leggi delle corse: la morte innalza sui gradini di un podio immaginario anche chi non ha mai vinto nulla. Solo per Roland questo non è successo. E non può succedere. Per sempre invisibile. Colpa del morto del giorno dopo.Benny Casadei Lucchi
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