U n padre che da anni non può più vedere le sue bambine. Una madre che dopo la separazione lo ha accusato di uno dei crimini più abominevoli: avere abusato delle figlie. Due giudici che per due volte lo hanno assolto: ma hanno assolto anche la ex moglie dall'accusa di calunnia. In mezzo a questo scontro, i servizi sociali della ricca Monza che per tutti questi anni non sono riusciti a svolgere il lavoro di recupero che la legge assegna loro. Morale: quando tutto è cominciato le bambine avevano sette anni, ormai vanno per i dodici, verso l'adolescenza. Quel padre innocente per loro è rimasto un estraneo ed è diventato un nemico. Una intera fase del percorso che accompagna un genitore e la sua prole è perso per sempre, comunque questa storia vada a finire.
Roberta Colombo è una giovane e combattiva avvocata milanese. Lavora spesso con le associazioni che difendono le donne maltrattate, sa quante violenze può portare con sé una unione che finisce. Ma proprio per questo sa che i torti non sono sempre e solo dei maschi. Conosce bene il fenomeno che da anni è ben presente anche ai giudici: quando un matrimonio si rompe e quando lo scontro tra gli ex coniugi diventa frontale, l'accusa di molestie sessuali viene a volte usata come un'arma impropria. A volte la donna dice di averle subite personalmente, durante l'unione. Nei casi peggiori, accusa l'uomo di avere abusato dei figli. E lo scaraventa dentro un procedimento penale da cui rischia di uscire a pezzi.
Anche stavolta è successo così. Nel dicembre 2017, nel pieno dello scontro col marito per l'affidamento delle bambine, la donna si presenta alla Procura e lo denuncia per violenza sessuale ai danni delle figlie, con dettagli disgustosi. La Procura di Monza, dopo avere interrogato le bimbe e affidato la consulenza a un perito, chiede l'archiviazione. Il giorno prima dell'udienza, l'ex moglie deposita una nuova denuncia. Ma il giudice archivia tutto. Nuova denuncia, identica, davanti alla Procura di Milano, e nuova richiesta di archiviazione: il giudice Sara Cipolla scrive che i racconti delle bambine sono «privi di continuità logica», le descrizioni «non sono frutte del libero pensiero delle bambine ma mutuate e fatte proprie». Sono state suggestionate, insomma. «Le bambine ripetono gli stessi racconti con le stesse parole», «sorprende la conoscenza di alcuni dettagli relativi all'attività sessuale certamente non consoni all'età e così pure l'utilizzo di un linguaggio da adulto nell'offendere il padre». Ma chi le ha istigate? Per il giudice milanese, la madre era in buona fede, mossa «dalla preoccupazione per la salute e l'integrità fisica delle proprie figlie». Ma in una mail inviata ai servizi sociali di Monza, l'avvocato Colombo scrive che nel corso di uno degli ultimi incontri, il 29 aprile, la madre «si è lasciata andare a delle affermazioni di gravità inaudita». «Mi riferisco - aggiunge - alle affermazioni di non avere mai creduto alle accuse di abusi sessuali ai danni delle figlie che lei stessa ha mosso nei confronti del padre. La madre ha altresì affermato che la questione non la riguarda e che per lei è del tutto indifferente sia stato lui, altri o nessuno». «L'ho fatto - avrebbe detto la donna - per le mie bambine».
Le carte dell'inchiesta sono urticanti, vi si legge come due figlie possano essere portate a odiare il loro padre sulla base di un ricordo immaginario. Ma vi si legge anche il comportamento inspiegabile dei servizi sociali che per due anni non eseguono quello che i giudici hanno disposto: creare uno «spazio neutro» dove il padre possa finalmente tornare a vedere le proprie figlie, sperando che quella che gli esperti chiamano «finestra emotiva» non si sia ancora chiusa del tutto. Niente da fare. L'avvocato scrive al sindaco di Monza, che è per legge il tutore delle ragazzine. Nessuna risposta.
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