Gervaso, il "grillo parlante" che irrideva i vizi di un Paese

È un'osteria e ci tiene ad andare controtempo. Non è vecchia, si è solo fermata e replica ogni giorno lo stesso copione, come se il futuro fosse solo la copia di un presente senza fine

Gervaso, il "grillo parlante" che irrideva i vizi di un Paese

È un'osteria e ci tiene ad andare controtempo. Non è vecchia, si è solo fermata e replica ogni giorno lo stesso copione, come se il futuro fosse solo la copia di un presente senza fine. È proprio sotto casa sua. «Ti piacerà», dice. È una Roma di mezzo agosto e si cammina per strada da stranieri, stralunati, con il tramonto che arriva senza che te ne accorgi e i grilli smettono di cantare e cominciano a parlare sottovoce. Ricordano, con il sorriso che si illumina seguendo il profilo di una ragazza, come se lui avesse ancora vent'anni. «Le illusioni non hanno età». Uno di questi grilli è Roberto Gervaso. È l'ultima volta che ci siamo visti, un paio di anni fa.

Gervaso se n'è andato senza recriminare nulla, magari un po' sorpreso che quest'avventura sia davvero finita. A luglio avrebbe compiuto 83 anni. Qualche tempo fa disse che sulla sua tomba avrebbe voluto questa epigrafe: «Qui giace Roberto Gervaso, che ancora stenta a crederci». Non è detto che non abbia cambiato idea. Non si sa mai come vestirsi per il proprio funerale, l'abito migliore per uscire di scena, probabilmente con il farfallino. Non è un vezzo. È il segno di un'intelligenza che non sapeva stare ferma, curiosa, disincantata, brillante, leggera come quella di chi con un balzo è pronto ad andare sulla luna, lì dove ci sono tutte le cose che gli umani hanno smarrito sulla terra: gli amori, il potere, le vanità, i ricordi, il senno. Negli ultimi tempi forse si era un po' stancato di restare in equilibrio su un'esistenza elettrica. «Cosa vorrei come regalo per la mia vecchiaia? Un po' di quiete». Ma una quiete senza noia. Qualche volta faticava a riconoscersi nel mestiere di una vita. «Mi dispiace - mi diceva quella sera in osteria - che ti tocca vivere la bassa stagione del giornalismo. Ricordati però sempre di rispettare i tuoi santi, i maestri di quest'arte minore. Non lo devi fare solo per te, ma per i morti. Fino a quando c'è ancora qualcuno che fatica per scrivere, senza buttare via le parole, allora non tutto è perduto». Il giornalismo in realtà non è al capolinea. Si evolve. Cambia faccia. Si perde e riappare. È per questo che Gervaso ha continuato a scrivere fino all'ultimo giorno. C'era ancora bisogno di lui.

Tutto comincia con un pezzo ritagliato con cura quando ancora era uno studente in cerca di una strada. «A 16 anni ho preso una copia del Corriere della Sera. In terza pagina - raccontava in un'intervista a Ario Gervasutti - c'era un taglio basso firmato da un certo Indro Montanelli. Il titolo era: Polli a Cinecittà. Raccontava di una sua visita a una marmaglia di comparse romane durante una pausa pranzo. Da quel giorno con la paghetta ricevuta da mio padre insegnante di educazione fisica compravo il Corriere e ogni volta ritagliavo Montanelli per incollarlo su un album e leggerlo, rileggerlo, postillarlo».

Passa qualche anno. Gervaso come premio per la maturità classica va a Roma, ospite del nonno. E che fa? Prima di partire scrive una lettera raccomandata a Montanelli. Era il 28 luglio 1956. Indro non solo risponde, ma lo invita a casa. È la porta scorrevole della sua vita. Montanelli lo porta al Corsera. Diventerà qualcosa di più di un maestro. È, alternandosi con Mario Cervi, il compagno di strada di Montanelli nell'avventura editoriale della Storia d'Italia. «Mi fece scrivere con lui sei volumi. Ci spartimmo i diritti d'autore al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15. Abbiamo venduto più di 18 milioni di copie».

Parte con Montanelli, poi va da solo. Ci sono anni in cui si dedica alle biografie: Cagliostro, Casanova, i Borgia, Nerone. Racconta gli italiani, con arguzia, con quel tanto di distacco che serve a vedere meglio le cose, senza mai giudicarli, qualche volta con tenerezza, regalando altre volte frustate e compassione. Svela vizi e carisma dei potenti. Non li risparmia. È una firma e un volto. Le sue interviste sono un genere letterario. Famosi e non famosi. Potenti o caduti in disgrazia. Dittatori in fuga e donne dal fascino eterno. Quella che ama di più è a Georges Simenon, gli invidia le donne e la scrittura. Interviste riconoscibili. Non c'è bisogno di leggere nome e cognome per capire di chi sono. Domande brevi, risposte nette, ritmo, velocità e colpi di fioretto per mettere a nudo chi hai davanti. Non è tenero neppure con se stesso. È da lì, da quel non sapere perdonare all'umanità la bellezza meschina, che nascono i suoi famosi aforismi. «M'accorgo del cielo infinito solo se una rondine ne percorre un tratto». «Mi fido solo dei medici che sottovalutano i miei sintomi». «È difficile conoscere se stessi perché crediamo di essere migliori di quel che siamo». «Alla cintura di castità preferisco le bretelle».

Il suo errore si chiama Licio Gelli. Non ne riconosce i piani. Si iscrive alla loggia massonica P2 come se fosse il circolo Pickwick. «Non ho mai chiesto nulla, non ho mai dato nulla». Ne pagherà le conseguenze. Professionali e sociali. «Non mi sono neanche pentito, perché non c'è niente di cui pentirsi».

Il suo nemico è stato il «cane nero». La depressione che per tre volte nella sua vita è arrivata a scarnificargli la mente e il corpo. Non ti curi mai fino in fondo, la combatti con le unghie e con i denti, con la speranza di sopravvivere. La depressione è il rogo dell'anima. Ti cancella i ricordi più belli, come la madre di tutti i dissennatori. «Ho fatto i conti con tre crisi depressive, a 23, 43 e 71 anni.

Complessivamente 10 anni di atroci patimenti». Alla fine ha avuto la forza di guardarla in faccia. Ora non ne ha più paura, perché sa che non può fargli più nulla. «È la morte più brutta perché ti mantiene vivo». Buonanotte, Roberto.

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