L'Italia repubblicana sconta una storia antica di influenze straniere. Sita sulla linea di faglia della Guerra Fredda, per quasi cinquant'anni è stata oggetto di attenzioni speciali da entrambe le superpotenze. Accomunate dalla condivisa esigenza che la fragile democrazia italiana non si consolidasse. Nessuna equivalenza tra «amici» e «nemici». In ogni caso, è ormai appurato che Usa e Urss intervennero a sostegno dei partiti a loro più prossimi. L'intervento sovietico, in particolar modo, fu massiccio, articolato e prolungato nel tempo. Nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta, il Pci fu di gran lunga il partito comunista occidentale che ricevette i finanziamenti più cospicui. Con questo passato, qualcuno potrebbe ritenersi autorizzato a trasalire di fronte alla sentenza della Corte Costituzionale romena che, sulla base di informative dei servizi segreti, ha annullato il primo turno delle elezioni presidenziali per palesi interferenze straniere a favore di uno dei candidati. Non scherziamo. Si sta parlando di tutt'altra cosa. Durante la Guerra Fredda, innanzitutto, le influenze erano bilaterali. Tendevano, per questo, a compensarsi. Soprattutto, non vi erano tecnologie in grado di moltiplicare all'infinito l'effetto distorsivo.
Alcuni passaggi della sentenza, che può già considerarsi storica, sono sufficienti per apprezzare la differenza. Non si cita mai esplicitamente la Russia. Si afferma, piuttosto, come di fronte a questo nuovo contesto, lo Stato abbia «l'obbligo di rafforzare la resilienza degli elettori, anche attraverso la sensibilizzazione dell'elettorato sull'uso di tecnologie digitali nelle elezioni». Per questo, dunque, impossibile girarsi dall'altra parte di fronte a un candidato che ha «beneficiato di una promozione aggressiva, condotta eludendo la legislazione nazionale in materia elettorale e sfruttando abusivamente gli algoritmi e le piattaforme social». Al candidato filo-russo viene imputato, in particolare «un uso non trasparente in violazione della legislazione elettorale di tecnologie digitali e di intelligenza artificiale, nonché del finanziamento non dichiarato della campagna elettorale, anche on line».
Ve ne è abbastanza per comprendere perché il fenomeno debba considerarsi nuovo, sconvolgente, non paragonabile a esempi del passato. E il discorso sulla sostanza si potrebbe anche chiudere qui. Se ne apre, però, un altro, giustamente evocato qualche giorno fa da Vittorio Macioce, che riguarda le garanzie. Lo si può condensare in una serie di quesiti: dove passa la nuova frontiera tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è? Lo si può stabilire sulla base di note dei servizi segreti? Siamo certi che materia così contingente debba essere di competenza di una Corte Costituzionale? Quel che, soprattutto, non convince nel caso romeno è che l'intervento sia avvenuto ex post. Qui sorge un altro dubbio: cosa accadrà alla legittimità del processo democratico se le nuove elezioni dovessero confermare i vecchi risultati?
Con tutta evidenza, serve un organismo in grado di intervenire preventivamente. Sul punto ha ragione il ministro Crosetto. Quest'organismo, però, dev'essere come la moglie di Cesare: insospettabile di partigianeria. Serve anche in Italia. Chi, infatti, pensasse che la problematica riguardi in particolare i Paesi dell'ex Unione Sovietica sui quali Putin vorrebbe recuperare la perduta influenza, starebbe sbagliando di grosso.
Il Csirt Italia (Computer Security Response Team) nei primi 10 mesi del 2024 ha censito 1591 interventi cyber con potenziale impatto su un soggetto istituzionale: 25% in più dell'anno precedente. Urge, dunque, un dibattito ma ancor più una soluzione. Chi ha a cuore il futuro del processo democratico ha l'obbligo di fare presto!
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