Augurandoci che a nessuno dei giudici costituzionali venga un forte raffreddore, domani sapremo se il referendum per abrogare la legge d'attuazione sull'autonomia differenziata dovrà svolgersi oppure no. Spetta, infatti, agli undici togati - a ranghi ridotti e a rischio quorum - emettere l'ardua sentenza.
La Corte si è già pronunziata lo scorso novembre sulla costituzionalità della legge Calderoli, respingendone le richieste di illegittimità totale e, al contempo, accogliendo le principali obiezioni di merito. Essa ha anche indicato la strada maestra per colmare i vuoti derivanti dal suo verdetto: il compito spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua discrezionalità. La sorte del referendum sembrava, allora, segnata. Ma la valutazione sulla modifica sostanziale dei «principi ispiratori», che determina la cancellazione di un referendum, è di competenza di un Ufficio della Corte di Cassazione. Il quale, il 12 dicembre, ha deciso di dar corso al referendum abrogativo dell'intera legge, bloccando solo il referendum parziale. Ora alla Consulta spetta un compito ulteriore: stabilire se la legge di cui si chiede l'abrogazione sia costituzionalmente necessaria e se il quesito possegga i requisiti di chiarezza, semplicità e non contraddittorietà, per essere intellegibile e non coartare la libertà di voto dell'elettore.
Sulla prima delle due questioni la risposta appare scontata. Difficile sostenere la indispensabilità costituzionale della legge, in quanto le intese tra Stato e Regioni previste dal Titolo V sono state avviate anche in assenza di quella normativa. Più arduo giudicare la chiarezza e la semplicità del quesito. A tal proposito, le motivazioni dell'ordinanza che ha dato il provvisorio via libera al referendum, suscitano un dubbio di merito. Esse, infatti, non fanno riferimento «ai principi ispiratori» della legge Calderoli ma a quelli dell'articolo 116 terzo comma della Carta sull'autonomia differenziata. Se il referendum dovesse allora svolgersi, acquisirebbe le sembianze di un verdetto consultivo su una norma costituzionale. Rischiando così di produrre un duplice sbrego: perché in Italia il referendum è solo abrogativo e perché esso non può riguardare la Costituzione. Se poi un quesito di tale natura debba ritenersi chiaro e semplice, dal punto di vista giuridico-costituzionale, non sta a noi deciderlo. A questo punto dobbiamo fermarci, rispettosamente, in attesa del giudizio della Corte.
La chiarezza, però, è anche - e forse ancor di più una categoria della politica. E su questo terreno, dopo la sentenza della Corte che ha svuotato di contenuti la legge Calderoli, la posta in gioco certamente non è più evidente. Sono state, infatti, dichiarate illegittime parti essenziali del provvedimento, che il Parlamento dovrà riscrivere. E ciò rende lecito domandarsi, allora, su cosa dovrebbero votare gli elettori, posto che le vecchie norme non ci sono più e le nuove non ci sono ancora? Non si comprende, poi, chi sarà a vincere o a perdere nel caso in cui, ad esempio, il quorum non venga raggiunto (previsione altamente probabile). Vorrebbe ciò significare un rigetto delle posizioni abrogazioniste? O, di contro, una risicata sensibilità della pubblica opinione nei confronti della «questione autonomia»? I principali partiti, in queste condizioni, non si esporranno, lasciando gli elettori in balia di se stessi. Il referendum, così, finirebbe per agevolare solo le posizioni più estreme, offrendo loro l'occasione per dar sfogo ai più triti luoghi comuni su meridionali, settentrionali, unità d'Italia, e chi più ne ha più ne metta.
La Corte domani, come è giusto che sia, dovrà svolgere il proprio compito
al riparo da ogni valutazione d'ordine politico, fosse pure di buon senso. A noi, però, è lecito sperare che le sue determinazioni assecondino l'interesse del Paese. E che, perciò, di questo referendum non se ne parli più.
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