La "bionda delle stragi" e l'enigma della foto ritrovata in casa di un carabiniere

In un'intervista, parla il carabiniere nella cui casa, nel 1993, venne ritrovata la foto che ha messo nei guai Rosa Belotti, la presunta "bionda" delle stragi di mafia, e sostiene di essere vittima di una vendetta

La "bionda delle stragi" e l'enigma della foto ritrovata in casa di un carabiniere

Risale ormai a tre mesi fa la notizia del presunto riconosimento in Rosa Belotti, ex pregiudicata e imprenditrice bergamasca, della “biondina” delle stragi del 1993 a Firenze e Milano. Un riconoscimento, dobbiamo dirlo, piuttosto singolare, dal momento che il confronto è stato fatto con una foto ritrovata in modalità a dir poco dubbie (e ora ci arriviamo) e un identikit disegnato all’epoca dei fatti che per nulla somiglia alla signora Belotti.

Dal giorno in cui il Ros di Firenze ha perquisito l’abitazione della donna, poche notizie sono filtrate, ma sappiamo che il lavoro d’indagine sta proseguendo. Giova però a questo punto tornare su quella foto che ha determinato il coinvolgimento di Rosa Belotti a distanza di tanti anni e su quel ritrovamento le cui modalità abbiamo definito “dubbie”.

La foto messa a confronto con l’identikit del 1993 (realizzato grazie alla testimonianza di testimoni oculari che, in via Palestro, a Milano, videro una ragazza bionda scendere dall’automobile che di lì a poco sarebbe esplosa spazzando via la vita di cinque persone) viene ritrovata il 29 settembre del 1993 – poco più di due mesi dopo l’attentato – in una villa di Alcamo, cittadina in provincial di Trapani, Sicilia. Nello specifico, la foto era infilata dentro il volume di un’enciclopedia. Andando ancora più nello specifico, a ritrovare la foto è stato Antonio Federico, un agente di polizia, che in quella villa era andato per scovare un arsenale di armi che una sua fonte gli aveva indicato come appartenente alla struttura semi clandestina Gladio. La stessa fonte l’ha guidato a colpo sicuro verso il ritrovamento della foto, con la promessa – stando a quanto sostenuto dallo stesso Federico – che lì avrebbe trovato la foto di una donna "bionda" a conoscenza di molti dettagli riguardo a dei traffici di armi "e altro materiale" nella zona del trapanese.

Ritrovata la foto, che però mostra una donna bruna, non bionda, il poliziotto Antonio Federico cosa fa? Siamo a due mesi dall’ultimo, sanguinoso attentato, logica suggerisce che l’abbia consegnata a chi di dovere. E invece no, la logica in questa storia non trova spazio. Federico quella foto se la dimentica e la conserva per fino al 1997. Solo allora la tira fuori dal cilindro e la consegna agli inquirenti, sostenendo che già all'epoca del ritrovamento in quella foto aveva notato la somiglianza, definita "incredibile", con la donna indicata come presente sul luogo della strage in via dei Georgofili, a Firenze.

In un precedente articolo sul tema, ci siamo posti delle domande che non hanno ancora trovato una risposta e che meritano di essere ripetute: a che titolo Antonio Federico, all’epoca ispettore, si recò in quella villa? A chi rispondeva? Chi erano i suoi superiori? Chi era la sua fonte? E, soprattutto, perché non ha consegnato subito quella foto? Sempre riprendendo il precendente articolo, non è immaginabile che un ispettore agisca di sua iniziativa scavalcando bellamente tutta una rete di comando. Non se la posta in gioco è una “soffiata” che porta a un arsenale legato (apparentemente) a Gladio. Non se si paventano connessioni con le stragi di mafia del 1993. Ma soprattutto, non se quella villa è di proprietà di un carabiniere.

Si, perché in questa storia troviamo coinvolti due carabinieri. A seguito della perquisizione della polizia e del ritrovamento dell’arsenale, a passare i guai sono due appartenenti all’Arma: il brigadiere Fabio Bertotto, padrone di casa, e l’appuntato Vincenzo La Colla, che lì conservava alcune delle armi poi sequestrate.

Facciamo un breve inciso, nulla in questa storia è come sembra. Più si scava, più si trova del marcio. Si ha la netta impressione che dietro le quinte si stia muovendo qualcosa di grosso. Vecchi armadi della vergogna sono stati riaperti e stanno lasciando uscire miasmi tenuti troppo a lungo tombati. Sembra quasi di assistere al secondo tempo di una lotta tutta interna alle istituzioni. Una lotta mai realmente terminata, ma dove i contendenti hanno avuto un lungo periodo di tregua. Periodo che ha portato qualcuno ad abbassare imprudentemente la guardia. E anche assistere dall’esterno non garantisce di non restare invischiati in qualcosa di veramente sporco.

Terminato l’inciso, a tre mesi dalla notizia della perquisizione in casa Belotti, un giornalista residente negli Stati Uniti, Stefano Santoro, porta a casa un’intervista esclusiva proprio con Bertotto e La Colla, i due carabinieri coinvolti nella vicenda. Noi de IlGiornale.it abbiamo avuto il permesso e l’opportunità di leggerla con attenzione e di riportarne alcuni stralci che abbiamo ritenuto di grande interesse.

La prima domanda che fa Santoro è giustamente questa: facevate parte di Gladio? A rispondere è Bertotto: “No assolutamente no, anche perché non avevo l’età per entrare a far parte di questa associazione segreta creata nel dopo Guerra. Sono tutte fantasie”. A questo punto il giornalista chiede, sempre a Bertotto, se sia vero che ha svolto delle missioni in Somalia come effettivamente si ricava da diverse fonti aperte. Bertotto è ancora una volta categorico: “Mai stato in Somalia. L’unica missione che ho svolto è stata in Cambogia e anche a causa di questa vicenda, hanno sospettato sul ritrovamento di banconote in dollari, non considerando che erano missioni Nato e che le missioni venivano pagate con moneta Statunitense. Posso dimostrare che non sono mai stato in Somalia, perchè sono rientrato nel mese di Luglio del ‘93 e la missione in Somalia era già iniziata, poi a settembre fui sottoposto a un procedimento penale e comunque ho i documenti del foglio matricolare che possono provarlo. Inoltre mi vorrebbero collegare per qualche motivo al Maresciallo Li Causi che io non ho mai conosciuto, non abbiamo mai fatto servizio insieme . È tutto un depistaggio” .

Depistaggio. Il dubbio che in effetti sia in atto, a distanza di tanti anni dai fatti, un depistaggio è forte. A opera di chi, però, non si capisce ancora bene. Andiamo avanti. Stefano Santoro incalza: “Si disse che le armi che vi sequestrarono potevano armare un esercito di una piccola nazione. Come mai eravate in possesso di questo arsenale?”. Risponde sempre Bertotto:

“Avevo quattro licenze di armi, tra cui anche quella di collezionatore [sic.]. Quando arrivai ad Alcamo non avevo queste armi, ma successivamente ne diventai proprietario dopo la morte di un mio zio che collezionava armi e mio nonno, dopo aver ritrovato questo materiale, mi disse che potevo essere l’unico a poterle custodire. A queste si aggiunsero altre armi da collezione del collega La Colla […] Si era pensato ad un museo. Voglio precisare comunque che in quel periodo i colleghi Carabinieri della Guardia di finanza e della Polizia di Stato ne erano a conoscenza. Con le armi regolarmente denunciate andavamo infatti con loro, a sparare nei pressi di Alcamo, almeno un paio di volte alla settimana. Per tanti colleghi non era assolutamente un mistero la presenza di queste armi nel garage, accanto il mio appartamento, nelle campagne di Alcamo. Ricordo bene che quando andavo in missione lasciai le chiavi ad un mio collega, pregandolo di utilizzarle qualora era necessaria l’apertura del garage. Ribadisco, diversi colleghi venivano con me ad esercitarsi.. era un hobby. Molte erano armi della prima e seconda guerra mondiale, incluso un moschetto 91/38 che era stato restaurato dallo stesso La Colla che ne era il proprietario”.

Riteniamo che al momento in cui questa intervista sarà diffusa, chi attualmente sta indagando sulla vicenda avrà gioco facile a verificare le parole di Fabio Bertotto. Se ciò che dice corrisponde al vero, devono essere parecchie le persone in grado di testimoniare a suo favore. C’è poi un altro dettaglio importante in questa risposta: le chiavi lasciate al collega. Posto che ci viene da chiedere per quale motivo si possa rendere “necessaria” l’apertura di un garage in cui sono conservate armi in assenza del proprietario, si tratta di un passaggio importante, perché – stando a quanto rilasciato da Bertotto al giornalista Santoro – si annida proprio qui il crocevia principale di questa vicenda. Il giornalista, giustamente, fa la domanda più logica: se tutti sapevano dell’arsenale, per quale motivo si arriva alla perquisizione in cui – ricordiamolo – viene ritrovata anche la foto di Rosa Belotti (foto, giova anche qui ricordare, in cui la Belotti, nel corso del primo interrogatorio di fronte ai magistrati fiorentini, si è riconosciuta senza saper spiegarsi come sia finita ad Alcamo)?

A rispondere è sempre Bertotto: “li entriamo in un tunnel. Ci sono dei grossi contrasti a monte. Ci sono stati dei contrasti grossi tra noi e la Polizia”. Non entriamo ora nel merito della vicenda e rimandiamo all’intervista integrale che Stefano Santoro pubblicherà sul suo profilo Facebook. Basti dire che Bertotto racconta di una storia decisamente torbida che, se confermata, può ancora mettere qualcuno nei guai. Idem se smentita. A noi, in questa sede, interessano le modalità del ritrovamento della foto di Rosa Belotti. Ricordate il dettaglio delle chiavi lasciate al collega? Bene, proprio quell collega, insieme a un poliziotto, si sarebbe recato in assenza di Bertotto nel garage. Logico, direte voi, aveva le chiavi per ogni necessità. Evidentemente, però, colleghi non vuol dire necessariamente “amici”.

Il giornalista Santoro, raccolte le parole di Bertotto (corredate dai commenti di La Colla), torna al sequestro dell’arsenale, chiedendo conferma se, dal suo punto di vista, si sia trattata di una ritorsione della Polizia. La risposta di Bertotto è piuttosto eloquente: “Riguarda la vicenda tra me e un mio subalterno carabiniere, nei mesi precedenti si dimostrò insofferente nei miei confronti, aveva un astio verso me, ambiva a sostituirmi nel comando di capo della radiomobile. Ricordo che un giorno fui convocato dal comando della Regione dell’Arma e il Colonnello mi disse che il mio collega era andato a recriminare per non precise ragioni, ed aveva avuto anche una crisi di pianto. Risposi che non avevo nessun problema nei suoi riguardi. Dopo il sequestro delle armi, chiesi ad un contadino che lavorava la terra nei pressi della villa che avevo affittato, se aveva notato movimenti strani. Rispose che aveva visto un’auto e che aveva riconosciuto un carabiniere ed un poliziotto, facendone una precisa descrizione. I due soggetti quindi entrarono nel garage della villa […] Il contadino me li descrisse bene, perchè li conosceva...."l'autru era autu, cu li baffi, era u to collega". Andarono un pomeriggio, alcuni giorni prima della perquisizione, aprirono con le chiavi, ed entrarono dentro […]” .

Insomma, Fabio Bertotto adombra il sospetto (che per lui è praticamente una certezza) che il sequestro delle armi si sia trattata di una vendetta. Certo, l’abbiamo detto anche all’inizio di questo articolo e l’abbiamo scritto in precedenza, le modalità raccontate da Antonio Federico fanno acqua da tutte le parti. Ma qui le parole pesano come macigni e non dubitiamo che chi di dovere avrà molto materiale su cui lavorare. Tornando all’intervista, Santoro chiede a Bertotto come giustifica il ritrovamento della foto di Rosa Belotti. Ecco la risposta di Bertotto:

"Non conosco la signora Belotti , e non capisco come mai tra tante foto che avevo, è spuntata solo una foto di cui non ho conoscenza. A casa avevo centinaia di foto di amici e parenti. La foto della signora Belotti non è nel verbale del materiale sequestrato, ho controllato molto bene.. nessuna foto e questo è sufficiente. Inoltre non capisco come mai qualcuno l'ha tenuta conservata per diversi anni e poi la tira fuori. Mi lascia sconcertato perchè la procedura penale non è una opinione, quindi la foto la sequestri o non la sequestri, non ti puoi ricordare dopo anni di aver messo in tasca una foto, e dopo anni dici "Oh... ho questo.... ho dimenticato di consegnarlo" . Ricordo che per tre giorni effettuarono la perquisizione, spaccarono tutto, sputarono sulle mie divise calpestate dal fango, presero anche dei miei vestiti personali… Quella foto non mi dice nulla, così come ho dichiarato alla magistratura. Tra l'altro al primo piano, d'estate tornavano i proprietari che avevano una attività a Paderno Dugnano in Lombardia. È possibile che se l'hanno trovata nella villa, è stata trovata nell'appartamento di sopra dei proprietari. Ma poi guardando bene, la signora non assomiglia all'identikit, e comunque non ho mai fatto indagini su questa donna".

Cosa aggiungere? Nulla, se non che questa vicenda diventa davvero di volta in volta più complessa. Qualcuno mischia e sottrae le tessere del puzzle e per chi ha l’ardire di provare a ricostruire almeno un contesto chiaro il gioco è tutt’altro che semplice. E visto che i giochi semplici non ci piacciono, aggiungiamo anche le parole di La Colla, che ricostruisce la genesi della perquisizione in modo differente rispetto al collega Bertotto.

“La vicenda del sequestro delle armi – spiega La Colla - è nata con il mio fermo, in base ad una relazione di servizio che, a firma di quattro poliziotti di Alcamo, asserivano [sic.] che mi riconobbero mentre buttavo dal finestrino un fagotto. Dichiararono che dopo che andai via, andarono a vedere dentro questo fagotto e trovarono un fucile vecchio antico. Quando fui convocato al Commissariato, un poliziotto mi chiese che calibro era quel fucile. Io risposi che non lo sapevo, ma successivamente mi ricordai che quattro giorni prima un mio confidente, tale Ruisi, mi aveva proposto di comprarlo e io avevo rifiutato. Ruisi era anche confidente di un poliziotto e così provarono a creare l'inganno. Io non avevo motivo di gettare un fucile. Questo fu il pretesto per arrivare alla perquisizione”.

Modalità diverse ma, stando alle parole di La Colla, pretesto comune: una ripicca tra colleghi. Santoro chiede a La Colla per quale motivo tenesse le sue armi in casa di Bertotto. L’uomo risponde così: “Queste armi le portai per motivi familiari dalla casa mia di campagna alla villa di Bertotto. Avevo dei pezzi interessanti e Fabio Bertotto sperava di entrarne in possesso per una pura collezione. Aggiungo anche che ci sono i verbali dove io indico chi mi ha dato quelle armi, ovvero il Capitano tizio etc etc.. Quindi non potevano mai essere armi della Gladio”.

Anche qui, non sarà difficile per gli inquirenti verificare queste informazioni. L’intervista prosegue e ci sono altri spunti interessanti, dunque vi invitiamo a leggerla integralmente. Noi ci siamo limitati ad analizzare le parti che ci interessavano, quelle cioè riferibili alla foto di Rosa Belotti e alle modalità di ritrovamento.

Il risultato è quello di avere le idee se possibile ancora più confuse, ma la certezza, che vale la pena sottolineare, di essere di fronte a uno scontro dall’esito incerto. Quello che possiamo dire con sicurezza è che non ci presteremo al gioco di nessuno ma manterremo una distanza di sicurezza per non farci sporcare dagli schizzi di fango.

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