
Un po' come accadeva nell'Ottocento, anche nell'Europa di oggi l'Italia sembra non sapere bene se considerarsi l'ultimo dei Paesi grandi o il primo di quelli medi. Nazione fondatrice delle istituzioni europee, forte di sessanta milioni di abitanti e del terzo prodotto interno lordo dell'Unione, pesa più di Spagna e Polonia. Ma non pesa tanto quanto Francia e Germania questa ben più consistente per economia e demografia, quella meno distante su entrambi i terreni, ma potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Insieme alla tradizionale debolezza dell'identità italiana, questa collocazione ambigua ha contribuito con ogni probabilità a far oscillare il modo in cui la Penisola pensa le proprie relazioni internazionali fra i due poli opposti entrambi perniciosi del senso d'inferiorità e del velleitarismo.
Alla ricerca di una soluzione, l'Italia si è spesso fatta sostenitrice convinta di una maggiore integrazione continentale. Poiché non contiamo tanto quanto i pesi massimi ma non possiamo nemmeno rassegnarci a contare quanto un peso medio questo, più o meno, il ragionamento conviene allora spingere perché prevalga una prospettiva sovranazionale che azzeri ogni peso e faccia confluire tutti gli interessi particolari nel superiore interesse continentale. È un approccio che si è manifestato anche da ultimo: non è mancato in queste settimane chi, in maniera più o meno esplicita, ha suggerito al governo italiano di rispondere all'attivismo nazionale di altri Paesi rilanciando e sostenendo il punto di vista europeo. Se vogliamo, anche la posizione del Partito democratico no alla proposta di riarmo della Commissione, ma nel nome di più Europa si colloca, seppur con parecchia ambiguità, nel solco di questa tradizione.
La domanda di fondo, tuttavia, è quanto sia proponibile questa tradizione oggi. Il quesito scaturisce da tre diversi ordini di considerazioni. È legittimo chiedersi, in primo luogo, se la strategia abbia mai funzionato davvero. O se non sia stata magari all'origine di una certa fragilità negoziale italiana sui tavoli europei, fragilità per la quale, a quei tavoli, la Penisola è stata spesso presente in qualità non di commensale ma di pietanza come ho sentito dire da un veterano dei negoziati continentali, di certo non euroscettico. Non mi pare impossibile argomentare che la virata dell'opinione pubblica italiana contro l'Europa, grazie alla quale fra il 2013 e il 2019 il Movimento 5 stelle prima e la Lega di Salvini poi si sono riempiti di voti, abbia rappresentato proprio una reazione al fallimento quanto meno al fallimento percepito di quella strategia.
In secondo luogo, può aver senso schermirsi dietro l'europeismo quando l'integrazione continentale è davvero in grado di muovere qualche passo in avanti. Ma non sembra probabile che nei prossimi tempi si proceda in questa direzione, malgrado le insistenze dei tanti che vi vedono l'unica risposta possibile alle sfide globali. Infine, non è certo la via che si può chiedere a Giorgia Meloni di seguire. Anche la leader di Fratelli d'Italia, come il M5s e la Lega, ha costruito le proprie fortune politiche sul fallimento percepito del tradizionale approccio italiano alle questioni continentali. Ha già fatto un lavoro straordinario, che quanti hanno a cuore l'Europa farebbero bene a riconoscerle, riportando una maggioranza degli elettori italiani nel perimetro psicologico dell'Unione seppur magari di malavoglia, lei e loro. Pretendere adesso che si trasformi in Emma Bonino non ha davvero senso.
Ma se il modo tradizionale di gestire le fragilità italiane non è più utilizzabile, bisogna che quelle siano affrontate altrimenti. Ricorrendo a una seconda strategia, anch'essa tutt'altro che nuova: costruendo legami con interlocutori extraeuropei che rafforzino la posizione negoziale dell'Italia. Che la «sollevino», per così dire, dal novero dei Paesi medi verso quello dei Paesi grandi, senza che ciò implichi necessariamente l'adozione di una postura antieuropea. È inutile aggiungere come il più importante di quegli interlocutori siano gli Stati Uniti.
Questo ragionamento ha cercato di collocare il viaggio americano di Giorgia Meloni all'interno di un quadro più ampio, logico e storico. Ma che la missione della presidente del Consiglio a Washington sia logicamente e storicamente giustificata non esclude affatto che essa sia ad alto rischio. Come ha ben scritto Stefano Folli su Repubblica, è la missione di gran lunga più importante del suo mandato. È rischiosa non soltanto perché, banalmente, là dove un suo esito positivo rafforzerebbe la Penisola, uno negativo la indebolirebbe.
Ma anche perché quell'eventuale esito negativo lo sarebbe doppiamente, essendosi l'Italia esposta con un'amministrazione americana che è entrata in un duro conflitto politico, economico e culturale con l'Unione Europea. L'imprevedibilità di quest'amministrazione, infine, non aiuta di certo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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