Superato lo choc per l'abbandono del tetto coniugale/governativo da parte di Giuseppe Conte, mentre ci si interroga sul futuro del Paese, della maggioranza e della famiglia del centrosinistra (con chi staranno i figli, chi pagherà gli alimenti?), è tempo di occuparsi del «congiunto» sedotto e abbandonato, che in queste ore si strazia nelle stanze a lutto del Nazareno. Perché, se dell'irresponsabile e spregiudicato blitz di Conte e del suo «francamente me ne infischio» si è già parlato, ancora non è stato analizzato lo psicodramma del Pd di Enrico Letta, che da questa crisi esce improvvisamente senza certezze e senza la sua unica idea politica: sfruttare i grillini per salire al potere.
Partiamo dalla coda, dall'umiliante appello di Letta ai 5 Stelle - «o tutti o una parte» - affinché mercoledì tornino a sostenere Draghi. Parole di negazionismo della crisi che hanno irritato il premier, disgustato nel vedere il partito più governista vezzeggiare chi lo accoltella. Parole che rivelano l'ipocrisia dem - con Draghi, ma anche con Conte - già stigmatizzata da Cingolani in cdm. Parole che dicono molto dello stato di prostrazione psicologica di un partito, quello Democratico, che in tre settimane è passato dall'euforia post-ballottaggi, con annessi sogni di gloria alle prossime Politiche, all'amara realizzazione di una realtà diversa. Ovvero che il suo alleato principe è un'accozzaglia guidata da un cinico e ormai impresentabile azzeccagarbugli e che da oggi insistere sul legame politico con chi è considerato da mezza Europa strumento di Putin rischia di diventare un boomerang. In sostanza, le parole di un generale che ha affidato le probabilità di vittoria all'azione di mercenari di dubbia fama e ora si accorge che di quelli non si può fidare.
Certo, nulla è scontato e, nonostante i sondaggi diano il centrodestra avanti, a sinistra non c'è limite all'incoerenza, quindi c'è tutto il tempo per ripiantare l'ennesimo seme di Ulivo. Però qui non si parla di uno dei tanti amori estivi della politica italiana. Il «campo largo» è stato il perno della leadership di Letta fin dal primo discorso, quello in cui - criticando Zingaretti e Bettini, considerati succubi del M5s - il neosegretario annunciò che il Pd avrebbe «guidato l'alleanza». E bisogna dire che come chaffeur Letta ha funzionato. Ha vampirizzato i voti dei grillini e li ha trascinati a digerire qualsiasi cosa. Agitando davanti a Conte lo specchietto di una vittoria giallorossa alle urne, Letta lo ha davvero guidato dove voleva. Senza accorgersi però che se la macchina è un catorcio e ti tradisce, l'autista rimane a piedi tanto quanto i passeggeri.
È in questo ostinato rifiuto di riconoscere e arginare l'inaffidabilità del Movimento di Conte in totale crisi di identità, che sta l'errore di Letta. Il quale non si è accorto che il rapporto simbiotico con i grillini aveva un prezzo e che - come nel Ritratto di Dorian Gray - più il Pd sembrava brillante e vincente, più il virus del contismo lo minava. Nel linguaggio, nell'assistenzialismo, ma anche nell'organigramma, con gli alfieri giallorossi come Boccia sempre più ascoltati e i critici marginalizzati o fatti fuori. Quello di Letta è stato un all-in. Per questo nella crisi attuale il segretario dem esce a pezzi più di tutti: è quello che più ha da rimetterci. Conte, per puro calcolo e in sprezzo del Paese, recupererà qualche punto. Il Pd invece perde l'utile idiota di turno scelto per battere «gli altri».
Era il 27 giugno, quando nella notte della «fatal Verona» Letta dichiarava: «Il campo largo è stato oggetto di prese in giro che oggi si rivoltano contro chi le faceva.
La strategia paga, vinciamo bene e in modo convincente». Tre settimane dopo, con il Pd iper-atlantista legato a doppio filo a un «amico di Putin» che paralizza il Paese e disgusta gli Usa, il campo di Letta più che largo è minato.
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