La prudenza con cui Mario Draghi sta approcciando la partita del Quirinale che si aprirà in Parlamento la terza settimana di gennaio è sintomatica di quanto lo stesso premier sia ancora oggi combattuto.
Da una parte - è un dato pacifico non solo a Palazzo Chigi, ma anche negli uffici di diretta collaborazione dei ministeri che contano, Mef e Mit su tutti - l'ex numero della Bce vorrebbe giocarsi le sue carte e tentare l'impresa: essere il primo presidente del Consiglio che trasloca direttamente al Colle. Draghi lo vuole fortemente. Per una legittima aspirazione, ma forse anche perché è consapevole del fatto che chiunque vada (o resti) al Quirinale, dal giorno dopo il governo ballerà come neanche sulle montagne russe.
Dall'altra parte, però, il premier conosce bene rischi e criticità della sfida. E la principale controindicazione è la meno politica di tutte, la più banale: un Parlamento letteralmente terrorizzato dal rischio delle elezioni anticipate. Perché è del tutto evidente che se Draghi dovesse andare al Colle, lo scenario del voto anticipato tornerebbe prepotentemente in pista. E in questo senso non c'è accordo politico che tenga, perché un cambio della guardia a Palazzo Chigi porterebbe a rivolgimenti difficilmente prevedibili e, soprattutto, controllabili. Il più scontato è l'uscita dalla maggioranza della Lega, tentazione a cui Matteo Salvini oggi resiste solo per non chiamarsi fuori dalla partita del Colle e perché rinnegare la fiducia a Draghi equivarrebbe a un secondo Papeete. Con un altro premier, è evidente, avrebbe invece le mani libere.
Ma il tema, dicevamo, è tutto fuorché politico. L'interruzione anticipata della legislatura è infatti l'unica cosa che la quasi totalità dei grandi elettori del nuovo capo dello Stato - cioè il Parlamento in seduta comune - vede come un pugno nello stomaco. Il combinato disposto tra la riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari, il calo di consensi nei sondaggi di alcuni partiti «pesanti» e la scadenza del 24 settembre 2022 per far scattare il diritto alla pensione per deputati e senatori di prima nomina è infatti una sorta di maionese impazzita. In chiaro non lo ammette nessuno, in off record è patrimonio comune. «Se Draghi va al Colle, chi ci garantisce che non si vota? Mica ce lo mettono nero su bianco con una Pec...», ironizza un big di lungo corso del centrodestra.
Ma andiamo con ordine. Il referendum costituzionale approvato nel 2020 riduce i seggi del 36,5%: da 630 a 400 alla Camera, da 315 a 200 al Senato. Un taglio cui va sommato il calo nei sondaggi di alcuni importanti partiti. Una tragedia per il M5s, ma un netto calo perfino per un partito in salute - almeno rispetto alle Politiche del 2018 - come la Lega. Si salva solo il Pd, ma soltanto perché rispetto alle ultime elezioni gli attuali gruppi parlamentari sono stati già falcidiati dalla scissione di Matteo Renzi. E va di lusso a Fratelli d'Italia, gli unici che registrano una crescita davvero esponenziale.
I calcoli che girano in questi giorni a Montecitorio - elaborati da alcuni deputati che da molti anni si dilettano con numeri, collegi e previsioni - sono infatti impietosi. La premessa è che lo studio è fatto tenendo conto della legge elettorale in vigore, dell'attuale assetto delle alleanze e del risultato delle ultime amministrative come criterio di massima per l'attribuzione dei seggi uninominali all'interno delle coalizioni. Per capirci, se domani l'area che raggruppa Italia viva, Azione e +Europa non dovesse correre con il centrosinistra, il quadro cambierebbe.
Ad oggi, però, lo scenario che si apre alla Camera in caso di voto anticipato è devastante. Il M5s - che di fuoriusciti in questi anni ne ha già avuti molti - rispetto agli attuali 159 deputati registrerebbe un calo tra il 50 e il 60% dei seggi. Cioè perderebbe tra gli 80 e i 94 deputati. Insomma, un disastro. Senza considerare che molti di loro - inutile dilungarsi elencando nomi già noti, a partire dall'ex ministro Lucia Azzolina - prima di diventare onorevoli dichiaravano tra 0 e 10mila euro l'anno, mentre oggi sono comodamente - e remuneratamente - sistemati nella «scatoletta di tonno» che avevano promesso di aprire. Ma va malissimo anche la Lega che, invece, durante la legislatura ha aumentato il bottino dei suoi gruppi parlamentari con diversi innesti. Così, i 133 deputati di oggi si ridurrebbero del 30-40%. Quindi, se si andasse a votare, il Carroccio perderebbe tra i 40 e i 53 seggi. In grande contrazione anche Forza Italia: da -40 a -50%. Gli attuali 77 deputati perderebbero per strada 30-38 unità. Si salva invece il Pd, che oggi conta 94 deputati e potrebbe rimanere stabile o incrementare del 9%. Mentre va alla grande Fratelli d'Italia, che conta solo 37 deputati ed è destinata a moltiplicarli in via esponenziale.
In questo quadro, dunque, non si capisce bene in base a cosa - nel segreto dell'urna, perché il voto per il presidente della Repubblica non è certo a scrutinio palese - deputati e senatori dovrebbero avventurarsi su una strada che ha come principale sbocco quello di mettere in discussione la legislatura. Il tutto, sapendo che i tre quarti di coloro che oggi siedono sugli scranni di Camera e Senato sono destinati a non tornare. Dovrebbero, per capirci, rischiare consapevolmente di rinunciare a oltre un anno di stipendio.
E non solo. Perché di mezzo, mica un dettaglio, c'è pure il capitolo pensione. Per beneficiarne, i parlamentari dovranno compiere il 65esimo anno di età. Ma per averne diritto i neo eletti devono prima arrivare a 4 anni, sei mesi e un giorno di mandato. Che scatta il 24 settembre 2022. E i parlamentari di prima nomina non sono certo un gruppetto residuale. Al contrario, sono decisamente la maggioranza: il 74%. Per l'esattezza: il 70,9% dei deputati (446 su 629) e il 77,5% dei senatori (244 su 314). Si andasse alle urne prima del 24 settembre 2022, per loro sarebbe la catastrofe previdenziale.
E, dunque, davvero non si capisce perché - nel segreto dell'urna - i grandi elettori dovrebbero sostenere Draghi al Colle e favorire così la soluzione che più di tutte
avvicina alla fine la legislatura. Visto che i parlamentari di quasi tutti i partiti sono ben coscienti che in caso di elezioni anticipate la maggior parte di loro è destinata a restare a casa. E, per giunta, senza pensione.
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