In Italia si è aperto un grave problema di scelta della razza della servitù. Nelle tavolate della piccola Atene, Capalbio, si discute accanitamente.
«Noi di sinistra possiamo avere camerieri?».
«Noi di sinistra possiamo avere camerieri neri?».
«Noi di sinistra possiamo avere camerieri neri pagati in nero?».
«Dobbiamo inginocchiarci ogni volta che il filippino porta il caffè?»
«Black Lives Matter».
«O vale solo per i calciatori?».
«Black Lives Matter».
«O vale solo per gli attori?».
«Black Lives Matter».
Gli intellettuali progressisti dovrebbero avere servitù bianca e di buon ceto sociale. Altrimenti in ginocchio, possibilmente sui ceci per espiare il peccato di tentato colonialismo.
«L'Italia poi si inginocchia contro il Belgio?».
«Solo se il Belgio si inginocchia».
«Ma non ha senso».
«Black Lives Matter».
Si scherza ma neanche troppo. Non poteva che finire così. Tom Wolfe aveva previsto tutto, alla lettera, nell'immortale reportage Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto (1970, Castelvecchi). La parte centrale del racconto si svolge a casa di Lenny Bernstein, grande direttore d'orchestra, che organizza, nel suo attico con vista su Central Park, una raccolta fondi per le Black Panthers. Le «Pantere» sono un'associazione radicale che vuole passare dalla lotta pacifista contro il razzismo, stile Martin Luther King, alle maniere spicce, stile Ti-sparo-in-testa. La polizia stende un nero? Un nero stenderà un poliziotto. Occhio per occhio... Inoltre le Pantere vogliono abbattere la società capitalista e i suoi occulti finanziatori, gli ebrei. Già, le «Pantere», vittime del razzismo, sono razziste. Malcom X è il guru, fino a quando non viene abbattuto a raffiche di mitraglietta, da una fazione rivale. Le Pantere rinunciano alla lotta armata intorno alla metà degli anni Settanta.
Black Lives Matter raccoglie l'eredità delle Black Panthers. Nato per protestare contro l'inaccettabile serie di ragazzi uccisi dalla polizia durante azioni più o meno di routine, il movimento è diventato un fenomeno di costume alla moda dietro il quale si cela un universo eterogeneo, in parte favorevole alle maniere forti.
Il problema del radical chic, «prima versione», era solleticare le Black Panthers e vivere, durante le feste di raccolta fondi, il brivido della vicinanza a un uomo vero, un selvaggio, un bruto. Il problema del radical chic, «revisione 2021», è misurare il proprio potere attraverso la sottomissione di star, sportivi, nazionali di calcio, politici e persone comuni. Si devono inginocchiare.
«Lo facciamo per mandare un giusto segnale: le vite dei neri sono importanti, guai a chi se lo scorda».
E giù lezioni di educazione civile, del tutto insensate: l'inginocchiarsi non è una pratica neutra anti-razzista ma un gesto militante in sostegno di Black Lives Matter, movimento, ormai s'è capito, non alieno alla violenza. Cediamo la parola al maestro indiscusso, Tom Wolfe: «Beh, alle persone istruite ovviamente si dice neri. Al momento è l'unica parola che sottintende la propria consapevolezza della dignità della razza nera. Ma, non si sa come, quando stai per usare quella parola con i tuoi domestici bianchi, esiti. Non riesci a cacciartela fuori dalla bocca. Perché? Contro-senso di colpa! Sai che stai per pronunciare una di quelle parole fondamentali che divide i colti dagli incolti, gli intonati dagli stonati, i fichi dagli sfigati. Non appena la parola ti esce di bocca e te ne accorgi già mentre hai la prima sillaba sulla punta della lingua il tuo domestico ti ha già schedato come uno di quei progressisti in limousine, o comunque ti voglia definire, tutti impegnati a dedicare il proprio buon cuore bianco alla causa dei neri, e magari ne dedicassi un po' ai proletari bianchi, ai domestici dell'East Side, per esempio, e figurarsi, sahib. Negatelo pure! Ma sono queste le piccole deliziose agonie del Radical Chic. Così uno finisce per scegliere negro, sperando che per un attimo il grande dio Culturatus metta da parte il suo libro mastro Comunque sia, se si è capaci di accettare questo piccolo compromesso, i propri domestici non sono più un problema. Ma il ragazzo dell'ascensore e il portiere Appena si accorgono che stai per dare uno di quei party, di riflesso cominciano a lanciarti occhiate fulminanti!».
Sì, cancel culture, via gli ultimi quarant'anni, si torna al radical chic, che qualcuno, erroneamente confonde con lo snob. È l'esatto contrario. Lo snob ostenta ridicola raffinatezza, il radical chic ama lo stile «romantico e rudemente vitale dei primitivi che abitano nelle case popolari», perché il proletario è bello, borghese può essere piccolo o grande ma è sempre brutto.
Tom Wolfe instillava il dubbio che il radical chic di radicale avesse soltanto lo stile. Il radical chic versione 2.0 è meno ambizioso del suo predecessore, che si sentiva il padrone del mondo. Il radical chic 2.0 si accontenta di essere il padrone dell'orticello della cultura, il consigliere delle case editrici da tinello, l'alfiere delle idee politiche vecchie e insepolte, il monopolista delle rubriche su settimanali a diffusione carbonara, lo «scrittore» di tweet acchiappa like, l'oratore da festival degli amichetti, l'editorialista indignato un tanto al chilo, il curatore di mostriciattole.
Il radical chic si sente trasgressivo ma
sfonda solo porte aperte, crede di essere controcorrente ma combatte solo battaglie già vinte. Tutto questo non lo preoccupa davvero, infatti il radical chic ha una sola vera paura: non belare allo stesso volume del gregge.
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