Così i giudici e le loro sentenze sono i ​padroni della legittima difesa

Le toghe hanno interpretato la legge Castelli in maniera restrittiva, riducendo la lumicino i casi in cui invocare la legittima difesa

Così i giudici e le loro sentenze sono i ​padroni della legittima difesa

Chissà se a Mario Cattaneo, il ristoratore di Casaletto Lodigiano che due giorni fa ha ucciso un ladro, verrà riconosciuta la legittima difesa. Come da manuale, Cattaneo è finito nel registro degli indagati. Il pm teme possa essersi trattato di omicidio volontario, al massimo eccesso colposo di legittima difesa. Comunque vada, per l'oste significherà iniziare un calvario giudiziario.

E alora puntuali come un orologio, le forze politiche sono tornate a chiedere una legge che permetta a chiunque di sparare contro chi irrompe in una proprietà privata. Senza che questo conduca ad indagini, incriminazioni e processi lunghi decenni. In realtà la norma c'è già. Il problema è chi la interpreta. Ovvero i giudici, facilitati dalla genericità con cui è stato partorito l'ultimo aggiornamento all'Art.52 del codice penale. Nel 2006 il governo Berlusconi decise di introdurre la legittima difesa domiciliare, stabilendo il diritto all'autotutela della propria casa, del negozio o dell'ufficio. Sembrava una rivoluzione: la difesa è "proporzionata" - dice la norma - nel caso in cui si "usa un'arma legittimamente detenuta" per difendere "i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione". Tradotto: se entri in casa mia e mi minacci, rischi di beccarti una pallottola. Peccato che i giudici (e i pm) negli anni abbiano fatto leva sull'ultima parte del secondo comma ("quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione") per limitarne l'applicazione.

Cosa è il "pericolo di aggressione"

Andiamo con ordine. Il legislatore non ha spiegato nei dettagli cosa intendesse per "pericolo di aggressione". Basta una semplice minaccia? È sufficiente l'intrusione improvvisa in casa? Oppure è necessario che il bandito prima mi picchi o spari affinché io possa rispondere al fuoco? Nel 2014 la Cassazione ha precisato che l'ingresso fraudolento o clandestino in una dimora non basta per dichiarare la legittima difesa. Non solo. Con una sentenza del 3 luglio 2014, la Suprema Corte ha ritenuto che la legittima difesa domiciliare "non può giustificare l'uccisione con uso legittimo delle armi di un ladro introdottosi in casa quando sia messo in pericolo soltanto un bene patrimoniale dell'aggredito". Serve dunque che ci sia un "pericolo imminente" per l'incolumità fisica di chi viene derubato.

Altrimenti è galera assicurata. Come nel caso di Antonio Monella, l'imprenditore di Arzago condannato a 6 anni e 2 mesi di reclusione. Il bandito gli aveva prelevato in casa le chiavi dell'auto per rubarla. Dal balcone l'imprenditore sparò un colpo calibro 12. Monella si disse impaurito e mosso dal desiderio di difendere la sua famiglia e i suoi beni. Ma per il giudice non sussisteva un "pericolo di aggressione" e non poteva uccidere il bandito al solo scopo di evitare che si portasse via l'auto. Sorte diversa toccò invece a Pierangelo Cozzano, gioielliere di Torino: nel suo caso i banditi si avventarono su di lui prima che usasse l'arma da fuoco. Cozzano allora venne assolto, ma solo perché aveva rischiato di morire.

La "non desistenza" e la fuga del bandito

L'altro punto controverso dell'art. 52 riguarda la "non desistenza". Nel caso in cui un ladro sta fuggendo, la vittima del furto non può sparare perché secondo la Cassazione deve essere considerato ormai innocuo. Esempio lampante il caso di Franco Birolo, tabaccaio di Correzzola condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi. Era l'aprile del 2012 quando prese la sua calibro 9 e scese nel negozio preso d'assalto dai banditi. Era buio, i ladri erano molto vicini e il momento risultava (ovviamente) concitato: Birolo esplose un colpo e uccise uno dei due malviventi mentre tentava di scappare. In Tribunale i legali chiesero l'applicazione della legittima difesa domiciliare, vista la situazione di oggettiva pericolosità, ma per la toga il fatto che il malvivente fosse sulla porta e quasi di spalle dimostrava che aveva desistito dal commettere il furto.

In realtà, alla fine è sempre il giudice ad interpretare i fatti in base ai suoi convincimenti, valutando di volta in volta se c'è un pericolo reale ed attuale, se i mezzi di reazione utilizzati sono proporzionali all'offesa, se il bene minacciato è tale da eguagliare la vita del bandito, se il ladro è in fuga oppure no e se c'era un'alternativa al colpo di pistola.

Discrezionalità che ha portato a sentenze tra loro molto discordanti e spesso ai limiti dell'imbarazzo: Franco Birolo, per esempio, proprio ieri è stato assolto in appello da tutte quelle accuse "accertate" dal giudice di pimo grado. Oggi colpevole, domani no. Legittima difesa à la carte.

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