A Cremona è disastro ambientale: niente bonifica dopo la chiusura di Tamoil

Tonnellate di greggio sono finite nel sottosuolo, ma la dismissione della Tamoil di Cremona e la bonifica dei terreni sono ancora lontane

A Cremona è disastro ambientale: niente bonifica dopo la chiusura di Tamoil

L’inquinamento è stato accertato ma, a distanza di cinque anni dalla chiusura di Tamoil a Cremona, divenuta un deposito, la bonifica dei terreni non è stata fatta. Peggio: la dismissione dell’impianto, che deve essere conclusa entro il 31 dicembre del 2017, non è neppure stata avviata. Di fatto, dall’autorizzazione alla dismissione che risale al 30 dicembre del 2014, Tamoil non ha mosso un dito: l’unica ipotesi sul tavolo è quella di una enorme colata di cemento per realizzare un parcheggio che prenda il posto della raffineria. E, mentre il procedimento penale sta per arrivare in Cassazione, quello amministrativo resta in alto mare.

L’autodenuncia del 2001

La multinazionale sorge su un terreno di 750mila metri quadrati, appena fuori dal centro abitato e a ridosso della riva del Po, accanto alle associazioni sportive canottieri. Dalla cosiddetta autodenuncia del 2001, quando comunicò agli enti preposti (regione, provincia e comune) la contaminazione da idrocarburi del sottosuolo della sua area (precisando di essere proprietaria di un terreno inquinato, non responsabile dell’inquinamento) sono trascorsi quindici anni. "Il tempo è uno dei protagonisti dell’intera vicenda – sottolinea l’avvocato Sergio Cannavò di Legambiente -. Lo scorrere inutile del tempo senza prendere provvedimenti, con l’azienda che apparentemente mostra di essere in regola con l’iter. Se si fosse dichiarata immediatamente responsabile, gli enti, anche se un po’ distratti, avrebbero comunque imposto degli obblighi, e lei stessa sarebbe stata costretta, a prescindere dal loro atteggiamento, a realizzare la messa in sicurezza di emergenza. Parliamo del 2001, per farla si è aspettato il 2007. La legge la richiede entro 48 ore dall’incidente".

Nel 2007 esplode l’emergenza

L’autodenuncia della Tamoil del 2001 dà avvio al complesso iter amministrativo che si apre con l’azienda che esclude la propria responsabilità nell’inquinamento e, in ogni caso, il rischio di contaminazione di aree esterne, grazie al cosiddetto “taglione”, una barriera installata lungo l’argine del Po che avrebbe dovuto contenere eventuali sversamenti. Per anni si va avanti senza che nessuno degli attori faccia accertamenti all'esterno della raffineria. Solo nel 2007 si viene a sapere che la contaminazione è altissima. Le video ispezioni nella rete fognaria dell’azienda mostrano tubi completamente collassati. Grandi quantità di petrolio hanno raggiunto l'esterno, contaminando la prima falda, a 9 metri e mezzo, e quella intermedia, a 70 metri di profondità. La città si accorge della gravità della situazione ed esplode l’emergenza. Vengono presi, con sei anni di ritardo, i primi provvedimenti di messa in sicurezza. Intanto si attiva la magistratura che avvia le indagini. Per l’apertura del processo, in sede penale, bisognerà attendere il 2012.

L’accordo con il ministero per lo sviluppo economico

A cavallo tra il 2010 e il 2011, la raffineria chiude e il sito diventa deposito per lo stoccaggio del greggio. Tamoil, comune, provincia e regione stipulano un contratto presso il ministero per lo sviluppo economico che stabilisce che l’azienda produrrà una serie di operazioni di ripristino ambientale delle aree esterne, e la bonifica (solo) all’interno del sito industriale. Si tratta di un accordo in sede politica e non amministrativa: un compromesso con cui Tamoil, si fa carico di queste operazioni, ma viene sollevata da ogni responsabilità legata all’inquinamento. Il procedimento amministrativo prende atto della situazione. Intanto va avanti il procedimento penale e, nel 2012, arrivano le prime condanne per disastro ambientale (il cosiddetto "disastro innominato"). Il Comune non si costituisce parte civile. Al suo posto lo fa un cittadino, Gino Ruggeri. Grazie a lui, all’ente viene riconosciuto il risarcimento del danno, da quantificare in sede civile, con una provvisionale di un milione di euro.

Il ritardo nella dismissione dell’area

Nel 2014 arriva dal ministero l’autorizzazione alla dismissione degli impianti. Ma, a distanza di due anni Tamoil non ha ancora mosso un dito e al Comune non è pervenuto neppure il cronoprogramma delle attività che saranno poste in essere. Come anticipato, l’unica proposta avanzata dall’azienda è quella di creare un enorme parcheggio per alloggiare camion che trasportano il raffinato. Solo dopo la dismissione si potrà parlare di bonifica. Intanto, il ripristino delle aree esterne è stato avviato nel 2013: oltre alla barriera idraulica precedentemente realizzata all’interno del sito (che impedisce il trascinamento di altre sostanze fuori dall’impianto), sono state installate macchine di ripristino ambientale davanti alle società canottieri, che assorbono aria inquinata e aspirano gas e vapori emessi dall’inquinamento sotterraneo. "Ma tutto questo non è sufficiente – dichiara Sergio Ravelli, del Partito Radicale di Cremona -: le macchine presenti non sono in condizioni di eseguire la completa bonifica e messa in sicurezza dell’area".

"La sudditanza della città"

Nel suo libro, "Morire di petrolio. Trent'anni di lotte radicali a Cremona contro l'inquinamento ambientale, economico, sociale e politico ", Ravelli spiega per filo e per segno la situazione. “Pensi che un socio della Bissolati (la più grande associazione canottieri, ndr.) mentre faceva la doccia, anni prima del 2007, lamentava un forte tanfo di petrolio. Nessuno osava parlare. Anche la Bissolati, come l’intera città, viveva delle sovvenzioni della Tamoil. Era una convivenza tollerata e nessuno aveva nulla da dire. Tra l’altro l’azienda - afferma - dava lavoro a centinaia di persone, intere famiglie, anche nell’indotto. Tutti hanno beneficiato della sua generosità. Era un insano rapporto di sudditanza tra le due istituzioni cremonesi (comune e azienda, ndr.) . La connivenza c’è stata, ma tutta a favore di Tamoil, perché i benefici della città, nel complesso dei profitti incredibili della multinazionale libica, erano poca roba. Certo per una realtà di 70mila abitanti, con una struttura industriale esilissima e difficoltà di innovazione, l’unico polo industriale all’epoca era Tamoil".

La sentenza d’appello

Si arriva così, in sede penale, alla sentenza d’appello del 20 giugno scorso. Viene condannato solo uno degli imputati, Sergio Gilberti, amministratore delegato dell’azienda dal 1999 al 2006. Ma, nelle motivazioni depositate il 6 settembre, la Corte conferma l’impostazione accusatoria e imputa a Tamoil la responsabilità dell’inquinamento delle aree interne ed esterne al sito, spiega come a nulla sia servito il taglione, accusa l’azienda di non essersi realmente attivata a partire dal 2001 e "mette in discussione gli stessi presupposti del procedimento amministrativo e dell’accordo politico - dice Ravelli -. Per questo, acquisita la sentenza dal Comune che, nel secondo grado di giudizio si è finalmente costituito parte civile, proponiamo di rimettere in discussione il procedimento amministrativo con una nuova caratterizzazione, analisi di rischio e progetto di bonifica, che tenga insieme le aree interne e quelle esterne al sito". I soldi di fatto ci sono perché l’amministrazione comunale ha intanto attivato una disposizione del testo unico ambientale, con cui ha chiesto all’azienda il deposito di una fideiussione per il proseguimento delle opere di bonifica e il ripristino ambientale. Sette milioni di euro sono stati così versati nelle casse comunali. Da questa fideiussione Tamoil non può scappare: è un vincolo che impedisce che tutto resti com’è, con l'eventuale fuga della società.

Il futuro di Cremona

Intanto continuano gli incontri in città con l’Osservatorio Tamoil, che da tempo si è costituito col compito di monitorare la situazione, in attesa della Cassazione, per procedere poi con la causa civile.

Se pure il ministero dell’ambiente dovesse richiedere, come ha annunciato, il risarcimento del danno ambientale, si potrà procedere a una bonifica seria dei terreni, anche perché nessuno sa oggi quali siano le reali condizioni dell’area fortemente inquinata. Nel corso degli anni sono state disperse tonnellate di greggio. Prima bisogna dismettere l’impianto. Solo dopo si aprirà la questione su cosa fare. Ma questo è un altro capitolo, ancora tutto da scrivere.

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