Delrio a Giuseppi: è lì grazie a noi...

Lo sguardo di Graziano Delrio mentre attraversa il corridoio dei passi perduti a Montecitorio è quello preoccupato di chi si rende conto che gli interlocutori della coalizione giallorossa parlano un altro linguaggio

Delrio a Giuseppi: è lì grazie a noi...

Lo sguardo di Graziano Delrio mentre attraversa il corridoio dei passi perduti a Montecitorio è quello preoccupato di chi si rende conto che gli interlocutori della coalizione giallorossa, dal premier ai grillini, parlano un altro linguaggio. A cominciare da chi nel governo, di fronte all'ipotesi di un rilancio del programma e dell'esecutivo, anche attraverso dei cambiamenti nella squadra, non sente ragioni, non vuole mollare l'osso. «Chi è nell'esecutivo confida usando un linguaggio inusualmente chiaro deve capire che è stato messo lì dai partiti. Anche Conte deve rendersi conto che non è a Palazzo Chigi per grazia ricevuta, ma è stato messo lì nel suo primo governo da Di Maio e Salvini; e nel secondo da Di Maio e Zingaretti. Per cui... Se poi penso su come è stato brutto oggi il dibattito in Commissione sulla riforma del Mes mi viene da pensare. Peggio di così: ma come fanno i grillini a dire no, non dico all'accedere al Mes, ma addirittura alla sua riforma?! Scherziamo, dove pensano di andare?!».

Il mezzo sfogo del capo dei deputati del Pd è comprensibile: ieri è stata una giornata proverbiale per farsi un'idea terribile - della condizione del governo, della maggioranza e del Parlamento. Al mattino il premier è stato assalito, direttamente o per via traversa, dai leader della maggioranza, che si sono visti ridurre sul Corriere l'ipotesi del rimpasto a mero strumento delle «ambizioni di qualcuno che spera in ruoli più importanti». Al punto che alla fine è dovuto intervenire il badante di casa Conte, «Roccobello» Casalino, assillato dal lavoro come non mai, visto che si barcamena tra la difesa della compagna del premier dall'assalto degli inviati delle Iene ad un supermercato con una telefonata alla scorta del capo del governo (è stato aperto un fascicolo alla Procura di Roma per uso indebito degli agenti, ndr), e la rettifica delle frasi dal sen sfuggite dalla bocca del presidente del consiglio nei momenti di ego smisurato. Ma è la solita parte in commedia di Roccobello, visto che Giuseppi al suo inner circle ha spiegato: «Qui pensano di potermi prendere per fesso, ma si sbagliano».

Ma non è finita: nel dibattito in Commissione sulla riforma del Mes il responsabile dell'Economia, Gualtieri, si è ritrovato contro i populisti e i sovranisti di ogni colore, a cominciare dai grillini Lannutti e Maniero che hanno accusato la Ue di «cleptocrazia», per finire ai leghisti Borghi e Bagnai che lo hanno diffidato a non trattare la riforma del Mes a Bruxelles perché non ha il mandato della maggioranza del Parlamento. «La maggioranza lo ha minacciato Borghi ce l'ho io». Alla fine è dovuto intervenire il reggente dei 5stelle Vito Crimi per precisare che i 5stelle non aderiranno al Mes ma non impediranno la riforma. Questo scollamento della maggioranza, però, ha permesso a Salvini di stringere d'assedio il Cav per convincerlo a votare contro la riforma del Mes. Ne sa qualcosa l'ala moderata di Forza Italia (da Gianni Letta alla Gelmini a Brunetta) a cui il leader leghista l'ha giurata.

Per non parlare della «piramide» di trecento persone, sei manager e due ministri con Conte al vertice, che dovrebbe gestire i 209 miliardi del Recovery fund. La ripetizione del «copione» che ha caratterizzato questi 9 mesi di pandemia: organismi pletorici messi i piedi all'ultimo minuto come la commissione Colao o gli Stati Generali dell'Economia - che il Premier usa solo come supporto alle sue decisioni. Più o meno come usa il Comitato Tecnico Scientifico: ad esempio, sulla decisione del Premier di evitare cene di oltre sei persone nelle abitazioni private, nel verbale della riunione del 12 ottobre si scopre che gli scienziati si sono limitati «a prenderne atto», rimarcando per scritto, però, «pur in assoluta assenza di evidenze scientifiche». Appunto, la «piramide» del Recovery fund servirà, nella mente del nuovo Faraone, a prendere atto delle sue decisioni.

È chiaro che una politica del genere non può piacere agli altri soci della maggioranza. Solo che l'idea del «rimpasto» di gennaio che Renzi teorizza da settembre, che Zingaretti e mezzo Pd accarezzano da un mese e mezzo e che non dispiace neppure a Di Maio («la prima mossa confidava più di un mese fa la deve fare il Pd») continua ad essere estremamente complicata. Somiglia a quegli appuntamenti segnati sull'agenda che poi, per un motivo o per l'altro, vengono sempre rinviati. Soprattutto, come si fa a convincere un ministro a lasciare la sua poltrona con il timbro di «incapace»: non è mai avvenuto. Le sostituzioni ad personam sono avvenute in più di 70 anni di Repubblica o a seguito di una vicenda giudiziaria, o per uno scandalo mediatico, o perché per motu proprio i ministri si sono dimessi come atto politico (trenta anni fa i ministri della sinistra dc contro la legge Mammì). Per cui la strada maestra per rinnovare una compagine di governo è la «crisi».

Una strada, però, che richiede una «determinazione» e un «coraggio» che per ora latita. «Ma come si può pensare spiega il renziano Gennaro Migliore che Boccia o la De Micheli o magari Catalfo, o ancora Bonafede oppure Patuanelli, possano dimettersi perché considerati non all'altezza?! Se vuoi un rimpasto, devi fare una crisi. Renzi lo sa. Solo che per farla ci vuole una carattere forte che Zingaretti non ha». In fondo la «crisi» sarebbe l'unico modo per avere un chiarimento, una visione, sul futuro del Paese che a questa maggioranza (vedi vicenda Mes o Recovery fund) manca. Una «crisi» innescherebbe un processo politico, un «rimpasto», invece, sarebbe la riproposizione di una liturgia del passato che non è mai approdata a nulla. Tanto più oggi con i numeri che questa maggioranza ha a disposizione: sicuramente come è avvenuto con gli ex-ministri grillini Iezzi e Grillo, i ministri sostituiti il giorno dopo diventeranno subito «malpancisti» sul filo dell'opposizione. «Con la crisi invece osserva il forzista Alessandro Cattaneo costringi anche noi ad andare a vedere che succede. Ad esporci». Tanto più che se il premier è riottoso sull'ipotesi «rimpasto», devi ripiegare sul canovaccio di sempre, una via tortuosa. «Se Conte non intende ragioni la butta lì il renziano Giacomo Portas lo mandi sotto una, due volte in aula». Si tratta, però, di un meccanismo complicato se lo metti in atto in piena emergenza.

Ecco perché si fa presto a parlare di «rimpasto», se il premier non vuole. Le sue truppe di complemento già minacciano. «Se non se ne vanno con i loro piedi spiega Gianfranco Rotondi, che anche se smentisce parla già come un uomo del premier non cambi neppure un sottosegretario. Eppoi se cacciano Conte per noi è meglio, il partito di Conte lo facciamo prima». «La verità osserva l'azzurro Matteo Perego è che tutto il potere è concentrato su Conte, che non gode però della fiducia di nessuno. Resta in piedi grazie ai Servizi e alla magistratura».

Ecco perché chi vuole il rimpasto deve avere il coraggio di aprire una crisi, voglia o non voglia il Quirinale. Altrimenti lasci stare. Si consoli con la battuta di Totò: «Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega».

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