La questione del terzo mandato, se cioè modificare o no la legge che vieta a sindaci e governatori di essere eletti tre volte, è stata osservata dall'opinione pubblica come si guarda un documentario sugli spostamenti degli gnu in Africa. Noia, disinteresse, trattandosi di faccende che interessano solo le bestie della savana. L'unico motivo di attenzione, in questi casi, è dato dall'arrivo del leone, anzi delle leonesse, che rincorrono, atterrano e poi organizzano un picnic in famiglia. C'è di mezzo la vita e la morte? Sì, ma quella delle creature di un circo lontano, un mondo che non tocca il nostro portafoglio.
Fuor di metafora. Cronache parlamentari e commentatori hanno indotto il popolo bue a guardare allo stesso modo la bocciatura di giovedì al Senato, in sede di Commissione affari costituzionali, dell'emendamento leghista che intendeva consentire ai sindaci di potersi ricandidare consecutivamente tre volte (a questo punto è stata ritirata la medesima proposta riferita ai governatori di Regione). Politologi e retroscenisti si sono dilettati a rispondere alla domanda classica: a chi giova la bocciatura? Nessuno si è discostato dallo schemino riferendo il contraccolpo del voto di Palazzo Madama sull'umore della mandria di gnu (i politici) e sugli appetiti delle leonesse (le leader, una delle quali peraltro è una gatta morta). Qui non mi interessa pesare i danni che ne avrebbe ricavato Salvini e il beneficio che ne avrebbero (...)
(...) ottenuto Meloni e Schlein, le quali, votando e vincendo concordi, si sarebbero prese la soddisfazione di dare un altolà ai rispettivi avversari interni.
Nel mio piccolo, sono orgoglioso di appartenere al popolo bue, ma da vecchio manzo lasciatemi muggire la mia. E qui vorrei occuparmi della questione in sé. Non mi pongo il quesito dalla parte di chi adesso occupa la cadrega di primo cittadino di Milano (Sala, sinistra), di Venezia (Brugnaro, centrodestra) o di Firenze (Nardella, Pd); oppure di governatore del Veneto (Zaia, centrodestra), dell'Emilia-Romagna (Bonaccini, sinistra), del Friuli-Venezia Giulia (Fedriga, centrodestra) i quali, insieme a parecchi altri (Decaro a Bari, Toti in Liguria, De Luca in Campania), non potrebbero più ricandidarsi. Certo, per loro è un guaio, un non gradito taglio delle unghie non proprio operato da raffinate manicure. Invito a osservare la vicenda dalla parte degli elettori. Perché togliere loro il diritto di votare chi gli pare e piace? Li si crede così idioti e manipolabili da doverli mettere sotto tutela, evitando loro la tentazione di farsi comprare?
Sono un arnese anziano. Ero rimasto al fatto che tocca al popolo scegliere chi deve rappresentarne gli interessi e guidare le istituzioni di cui dovrebbe essere padrone. E ho sempre pensato che nessuno può limitare il diritto degli elettori. Per cui se dai banchi di Camera e Senato si ergono tizi che sostengono la necessità di educare codesto popolo, costoro si impossessano di prerogative che non gli appartengono. Non mi pare affatto bello che si imponga un guinzaglio legislativo a chi deve poter scegliere liberamente chi è il migliore, o il meno peggio.
Questo criterio, sancito dalla Costituzione con la celebre sentenza «la sovranità appartiene al popolo» (articolo 1, comma 2), è - anzi dovrebbe - essere rafforzato quando si tratta di individuare il più idoneo a salvaguardare sicurezza e promuovere il benessere della comunità più vicina agli elettori. Democrazia di prossimità, si chiama. Il controllo sociale è più facile.
Se verifico non una ma due volte che il tale è stato bravo a far funzionare i servizi pubblici e a decongestionare il traffico della mia città, o a migliorare la sanità e a sviluppare le infrastrutture della regione, perché mi dovrebbe essere impedito di rimettergli la fascia tricolore o reinsediarlo a governatore della Campania?
Paura che il potere gli dia alla testa? E credendosi tanti Napoleone si mettano in testa da soli la corona di imperatore? Detta in altro modo: perché togliermi la soddisfazione, nel 2026 visto che voto a Milano, di mandare a casa Beppe Sala? Voglio che sia battuto, ma non per squalifica.
Non esistono in Europa - salvo il Portogallo e la Polonia - esempi dove ci siano limiti di mandato per cariche elettive locali e regionali. Esse riguardano semmai nel mondo i presidenti della Repubblica negli Stati Uniti (8 anni) e in Francia (dieci anni). Da noi siamo ai quattordici anni che i parlamentari hanno assegnato a Sergio Mattarella, ma la legge non vieta diventino ventuno.
Per par condicio deputati e senatori dovrebbero allora votarsi una legge che limiti a due i loro mandati, o magari, esageriamo, a dieci. Ma il rischio sarebbe di trovare in giro a far danni al bigliardo Pier Ferdinando Casini, oggi felicemente e così giovane all'undicesima legislatura.Vittorio Feltri
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